Corriere della Sera, 25 aprile 2025
Artie 5ive ai vertici delle classifiche con il primo album: «Cerco la spiritualità e condanno gli uomini violenti»
Per Artie 5ive – all’anagrafe Ivan Arturo Barioli, rapper nato a Milano nel 2000 da mamma sierraleonese e papà italiano e cresciuto tra i casermoni popolari di Bicocca – è un periodo denso di soddisfazioni. Il suo primo album solista, «La bellavita», uscito a fine marzo con i featuring di Tony Boy, Capo Plaza, Gué, Kid Yugi e Nicky Savage, ha esordito in testa alla classifica Fimi ed è stato il terzo debutto discografico più ascoltato al mondo su Spotify.
Il suo tour partirà in autunno, con due date da tutto esaurito nel tempio della musica milanese Fabrique, ma prima ancora lo aspettano i festival estivi e il tour nei palazzetti di Gué, che lo ha voluto accanto a sé come parte dello show («Un grandissimo onore», dice). Ce n’è abbastanza per montarsi la testa. E invece, si dichiara solo «piacevolmente sorpreso che così tanti condividano il mio concetto di bella vita».
Che è molto diverso da quello di solito associato al rap.
«La società occidentale guarda a ricchezza e successo, e mai alle piccole cose. Il contesto sociale ed economico in cui sono cresciuto, invece, mi ha portato ad adattarmi e ad accontentarmi, in senso buono».
Lo racconta nel brano «Mama»: sua madre, rimasta sola in Italia dopo la separazione da suo padre, ha fatto i lavori più umili per crescere lei e suo fratello.
«Proprio per questo sono stato abituato a vedere la bellezza ovunque: è tutto relativo. E tutti i traguardi meritano di essere festeggiati in grande: la laurea o la promozione di un mio amico non valgono meno di un mio disco d’oro o di un concerto sold-out».
Lei è una delle prime vere star afroitaliane della nostra musica. In termini di discriminazioni, il nostro Paese sta migliorando?
«Il razzismo negli anni è cambiato, oggi è sempre più difficile smascherarlo. Molti si nascondono dietro una facciata di perbenismo per paura di dire qualcosa di sbagliato, ma poi di nascosto fanno e pensano il peggio. Storicamente in Italia ci siamo confrontati con gli stranieri per via di invasioni e conflitti: gli spagnoli nel ‘700, i tedeschi nella seconda guerra mondiale. Ci è rimasta la paura inconscia che vogliano conquistarci e sottometterci. Ovviamente non è così: semplicemente, col trascorrere del tempo ci saranno sempre nuovi italiani, e sempre più variegati. Il futuro è già qui, quelli come me esistono già. Le differenze sono il bello della vita».
Spesso però il tema viene trattato con toni allarmistici, soprattutto quando si parla di baby gang: la sua Milano si è davvero trasformata in Gotham City, come sembrano suggerire alcuni media?
«Di Milano è cambiata la geografia: una volta erano le periferie a essere turbolente, oggi il centro è terra di nessuno e negli ex quartieri malfamati si vive tutto sommato tranquilli. E sì, i ragazzi sono sempre più irrequieti, ma è inevitabile: sta diventando una metropoli che mette al primo posto i soldi, il consumo e la produzione, e non le persone che la abitano. Se integri tutti e non lasci indietro nessuno, nessuno si sentirà tentato di comportarsi male».
A proposito di comportarsi male: in un brano dell’album, «Montecarlo» dice che solo gli «uomini di merda picchiano le loro donne».
«Sono molto attento a temi come la violenza di genere, che è un atteggiamento da condannare sempre. È un concetto che va ribadito, anche quando sembra ovvio. Non vorrei mai che qualcuno si sentisse giustificato a trattare male una donna per quello che sente nelle mie canzoni: deve essere chiaro che, anche quando uso un linguaggio forte, mi riferisco solo a una sfera sessuale in cui entrambi i partner sono consenzienti e felici».
Il rap viene spesso accusato di misoginia e incitamento alla violenza, così come alcuni suoi colleghi. Che ne pensa?
«Usare termini espliciti è diverso dalla violenza. E per il codice d’onore che vige nelle strade dove il rap è nato, se picchi una donna sei un infame».
In «Pietà», un brano che è una sorta di preghiera, chiede addirittura a Dio di perdonare chi tradisce la fidanzata.
«Nel rap italiano mancava una canzone che chiedesse scusa agli altri ma anche a se stessi, così io e Kid Yugi abbiamo provato a farla. Mi ritengo una persona molto spirituale, anche se non religiosa in senso stretto: so di non sapere, ma cerco di cogliere i segnali attorno a me».