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 2025  aprile 25 Venerdì calendario

Intervista a Sting

«Se il matto persiste nella sua follia, diventa saggio». Sting cita spesso la frase del poeta William Blake per spiegare come la sua ostinazione per la musica lo abbia sottratto ad una vita operaia tra gru e e fiammate di acetilene. È stato lattaio, manovale, impiegato del fisco, prima di arrivare a vendere cento milioni di dischi. L’ultimo, Sting 3.0 Live, esce oggi e raccoglie i successi con i Police e da solista, registrati nel tour mondiale con il chitarrista Dominic Miller e il batterista Chris Maas. Statuario e con voce intatta a 73 anni, si affaccia su Zoom e ci mostra Central Park dalla finestra: «Perché diamine ieri ho lasciato Il Palagio per venire a New York? Amo tutto della mia tenuta in Toscana». Tornerà in concerto (6 luglio Bassano del Grappa, 7 Roma, 9 luglio a Codroipo) in formato trio per la prima volta dopo i Police.
Sting, voglia di essenziale?
«È un processo interessante togliere invece che aggiungere. Negli anni ho chiamato orchestre, big band, e tanti musicisti, ora vado in direzione opposta e riduco. Le canzoni sono abbastanza solide da sopportarlo e diventano più chiare. Si crea molta aria e c’è la possibilità d’improvvisare. Noi non facciamo jazz ma abbiamo una sensibilità jazz. Significa che non riproduciamo un disco ma ogni volta scopriamo cose nuove in vecchie canzoni. E questo mi costringe a faticare».
Con il trio farà un album nuovo?
«Lo spero. Finora è nato qualche brano».
La sua Fragile è ripresa nella serie Adolescence. Che effetto le fa?
«Ho ascoltato la cover per caso e la trovo appropriata all’argomento. Mi piace il coro scolastico di adolescenti. Il brano porta un messaggio che abbiamo bisogno di sentire, riguarda la nostra fragilità davanti alla violenza insensata. La cantai l’11 settembre 2001 dal giardino di casa in Toscana, la mandavano tutte le radio statunitensi in quei giorni. Oggi può riguardare la fragilità dell’ambiente o della democrazia».
Fragile la compose lei alla chitarra. Fu la sua prima ossessione?
«La scoprii a 8 anni e la riconobbi subito come amica e via di fuga. Provengo da una zona industriale dell’Inghilterra del nord e non volevo finire in miniera o in cantiere navale. La chitarra sembrava promettermi un futuro diverso. È ancora la mia ossessione».
La folgorazione avvenne con Jimi Hendrix.
«Lo vidi in concerto e mi si aprì un mondo: non era solo una rockstar, era un virtuoso. Prima, non avevo mai pensato ad essere così bravo sullo strumento. Ci sto ancora provando».
Le limitazioni le insegnarono a sognare in grande?
«A volte dovremmo accoglierle, avere troppe scelte manda in confusione. Non avevo soldi e così è nata l’energia per scappare, il motore dell’ambizione. Anche formare una band in tre fu una sfida».
Tre biondi che mettevano reggae e jazz nel punk-rock, e titoli impossibili ai dischi. Audaci i Police?
«Non avevamo niente da perdere, solo buone canzoni da giocare ad una tombola. Ci siamo trovati nel posto giusto, al momento giusto, e con il giusto taglio di capelli».
Nel film Quadrophenia faceva Asso e volle tenere quell’acconciatura nel debutto dei Police in tv. Se lo ricorda?
«Era il 2 ottobre 1978, compivo 27 anni. Pensai di spruzzarmi una vernice in testa e mi ustionai gli occhi. Suonai Can’t Stand Losing You con enormi occhiali neri che mi coprivano la faccia ma scivolavano giù ed ero costretto a mandare la testa indietro come se avessi un tic. Risultai un tipo strano».
Da allora tutti la ballarono così.
Crede nel destino?
«Forse esiste, ma di sicuro io ho lavorato sodo per fare successo».
Il primo ingaggio su una nave di lusso. Osò presentarsi con le scarpe da tennis e venne mandato a suonare giù, fra fuochisti e bari. Il basso la fece sentire al sicuro?
«È un’arma di difesa utile in situazioni poco raccomandabili, una specie di mazza medievale. Lì capii che non volevo più lavorare su una nave. A meno che non fosse di mia proprietà».

Nel live suona di lato, non al centro. Il bassista è un eroe defilato?
«È un leader potente e impercettibile. So ciò che voglio e controllo tutto ma senza usare la bacchetta da direttore».
Roxanne nacque in un’equivoca pensione di Parigi, Fields Of Gold guardando i campi di orzo a Stonehenge, Every Breath You Take alla scrivania di Ian Fleming in Giamaica. Il luogo conta?
«Per me è un personaggio che entra nella musica, perciò amo registrare non in studi anonimi ma nelle case, mentre arrivano i profumi della cucina, circondato dai libri e dai quadri».
Come va il suo udito?
«Scusa, che hai detto? (ride). Per chi fa il mio mestiere è normale perderne un po’. La musica la sento perfettamente, a volte non sento i parlati e mi aiuto con la lettura delle labbra. È stato complicato durante il covid, con le mascherine».
I colleghi, da Springsteen a Chris Martin, soffrono di depressione. Lei come si salva?
«Sono abbastanza equilibrato. Non tendo alla depressione, che è distruttiva. Tendo più alla malinconia, che è un sentimento creativo. La tristezza di un accordo minore è terapeutica. Certe note se la portano via».
Con 1000 artisti ha partecipato all’album silenzioso contro l’uso dell’intelligenza artificiale. La teme?
«È chiaramente una minaccia. Stiamo portando nella società umana qualcosa che è più smart di noi. Tragico, se finisce in mani sbagliate. Ma non c’è modo di cancellarla quindi dobbiamo usarla a nostro vantaggio nella ricerca medica, e stare attenti altrove. Comunque penso che sentire sia diverso da ascoltare».
Spieghi.
«Puoi sentire musica generata da IA in aeroporto, al supermercato, nell’atrio di un hotel, ma l’ascolto attivo è un’altra cosa. L’intelligenza artificiale non può commuovere l’anima. Non ancora».
Quale messaggio metterebbe oggi nella bottiglia?
«Siamo tutti soli e siamo tutti insieme».