La Stampa, 25 aprile 2025
Ermal Meta: "Non solo musica il mio concerto diventa teatro"
C’è molto traffico di questi tempi sull’agenda di Ermal Meta. Il quarantaquattrenne cantautore albanese, in Italia dal 1994, è atteso mercoledì prossimo al Teatro Colosseo per poi correre a Roma, dove condurrà il concerto del Primo Maggio in diretta tivù. Il 18 il ritorno a Torino, per presentare al Salone del Libro il suo secondo romanzo, Le camelie invernali, in uscita pochi giorni prima per La Nave di Teseo. Oggi, intanto, pubblica una nuova canzone, Ferma gli orologi.
Ermal, partiamo dal live in programma il 30 a Torino: quanto è un concerto e quanto uno spettacolo teatrale?
«Lo considero un concerto diverso da tutti quelli che ho portato in tournée in precedenza. La narrazione parte da una domanda: “cosa c’è prima di una canzone?”. C’è una visione, un lampo che illumina l’autore per una frazione di secondo e da cui poi si sviluppa tutto il resto. Sul palco, in due e con un sacco di strumenti, risaliamo all’essenza prima dei brani e io parlo di tante cose, ma sempre con tono leggero».
Uno show così intimo merita silenzio, buio, attenzione: Bob Dylan ha vietato l’uso dei telefonini ai concerti e altri suoi colleghi li sconsigliano. A lei danno fastidio?
«Fino a qualche anno fa parecchio, adesso invece non ci faccio più caso. In fondo il pubblico paga il biglietto e se ha piacere di rivedersi qualche spezzone della serata a casa sul telefono è giusto che possa farlo».
Dal Colosseo di Torino volerà alla piazza San Giovanni di Roma per il concerto del Primo Maggio: come ha vissuto lo scorso anno il ruolo di presentatore, in cui è confermato anche quest’anno?
«L’anno scorso ero emozionatissimo e digiuno del ruolo, non ero mai stato da quella parte del palco. Per di più la prima tranche fu funestata da vento e pioggia, per cui spesso dovemmo improvvisare. Il ricordo più bello è legato al momento in cui presi la chitarra acustica, mi misi a cantare “Allelujah” di Leonard Cohen e vidi il cielo spalancarsi letteralmente. Quest’anno sarò più navigato in caso di imprevisti, il resto lo faranno le prove del 28 e del 29 con le mie compagne d’avventura, Noemi e BigMama».
A maggio tornerà a Torino per presentare il libro in uscita il 13 dello stesso mese: cosa ci può anticipare?
«Come il romanzo precedente è ambientato in Albania, anzi, tra l’Albania e la Grecia. Siamo negli Anni Novanta, di un sistema tradizionale di leggi chiamato Kanun, che risaliva al quindicesimo secolo, ne è rimasta in vigore solo una: la vendetta trasversale. Tutto vero, ancora oggi si calcola che milleduecento famiglie siano a rischio di subire una di quelle rappresaglie da un altro nucleo. I protagonisti sono due ragazzi che per questa legge si trovano contrapposti: erano amici, ora sono potenzialmente uno l’assassino dell’altro».
L’ha colpita la scomparsa di Papa Francesco?
«Certo, quando se ne va una figura così importante è impossibile restare indifferenti, per quanto non sia stato un evento improvviso. Sotto il profilo della fede, io sono credente ma non praticante. Né battezzato: quando sono nato, nel 1981, in Albania la religione era al bando e chi la praticava rischiava grosso con il regime».
Che effetto le fa oggi vedere il suo paese natale sede di centri italiani per migranti?
«Non è questione di Albania, ovunque siano mi fa effetto in generale pensare che esistano delle persone migranti detenute. Però non ho ricette, soluzioni: non posseggo gli strumenti per stabilire chi fugga da cosa e quali siano le politiche più idonee da adottare”.
Che dice di Torino e del Piemonte, magari partendo da due nomi, Levante e Mescal?
«La prima volta ci venni a suonare con il mio gruppo di fine Anni Novanta, La Fame di Camilla, e pensavo: fantastico, andiamo nella città dei Subsonica! La immaginavo magica, e tale si è sempre confermata con me. Con Levante c’è grande stima reciproca e avere inciso insieme Io e te l’ha celebrata. L’etichetta Mescal di Nizza Monferrato mi lanciò per prima e le sono grato, anche se le nostre strade si sono separate da un po’ di tempo».
Il suo ultimo disco s’intitola Buona fortuna: è ottimista?
"Da sempre, anzi: più i tempi sono bui più occorre esserlo. Significa dire che le cose vanno male ma possono cambiare, è troppo facile essere ottimisti quando fila tutto liscio. Da papà di una bimba di dieci mesi, poi, mi sento più che mai in dovere di immaginare il meglio per quel mondo che sarà suo”.