repubblica.it, 24 aprile 2025
I video più visti degli ultimi 20 anni su YouTube sono musicali, e in gran parte per bambini
Non capirci niente è una delle cose più rilassanti del mondo. Rilassanti e democratiche, visto che laddove una cosa è impossibile da comprendere è anche impossibile per chiunque catalogarla con certezza. Specialmente quando si parla di media. E soprattutto secondo la scuola esegetica di Cultural Studies fondata dal pensatore americano Lawrence Grossberg, insuperato analista che chiama “mediamaking” quel processo per cui un media “fa” il suo pubblico almeno quanto il pubblico “fa” il suo media. Insomma: in comunicazione, il dirigismo sta all’inaspettato come la motocicletta sta all’impennata prima della curva cieca: magari va tutto liscio, ma magari no.
Vecchia storia: la tivù doveva uccidere la radio e invece la radio s’è televisizzata e la televisione ha fatto specularmente il contrario (i talk show!), mentre il web, zitto zitto, funziona benone anche in stile transistor (i podcast!). Il kindle poteva ammazzare i libri e invece i libri hanno ammazzato il kindle, perché toccare plastica mentre si gode non è più ammesso neppure con le forchette del picnic, ormai biodegradabili. Twitter (ora X) avrebbe dato voce al popolo e invece ha dato al popolo una voce sola, proprio come nella repubblica di Mao, e difatti nelle classifiche sugli utenti unici attivi il social di Musk è tristemente tredicesimo dopo Douyin, Kuaishou e Weibo, tutti e tre pechinesi. E ancora: lo streaming avrebbe annientato la musica che invece sopravvive grazie a esso, soprattutto dal vivo. Gli anime pacifisti giapponesi di Studio Ghibli vengono usati nella propaganda bellica in Medio Oriente. E Netflix avrebbe dovuto soddisfare per sempre la voglia di audiovisivo che invece è diventata insaziabile, tanto che nessuna serie è più autorizzata a terminare.
E YouTube? Era destinata a innalzarsi a Hollywood dei creators e del “faidate” si diceva, e difatti eravamo partiti bene: il primo video davvero virale è stato Charlie Bit My Fingers, 55 secondi durante i quali un neonato morde il dito del fratellino che piagnucola e si lamenta, mentre un impassibile genitore li riprende (a distanza di anni, tranquillizziamo il pubblico, stanno bene entrambi, anzi, con la pubblicità hanno guadagnato 1 milione di sterline e si sono pagati università prestigiose).
Poi pian piano il pubblico ha iniziato silenziosamente a ribellarsi, e a far capire che una roba fatta in casa andava bene, ma fatta da professionisti era meglio: e c’è stata la svolta, anche perché gli improvvisatori e gli istintivi nel frattempo si sono riversati su TikTok. Il primo video YouTube a superare la soglia di 1 milione di visualizzazioni è stato non a caso una produzione ufficiale, ma dal linguaggio undercover e ancora condizionato dal “do it yourself”: mostrava un finto fuorionda del calciatore brasiliano Ronaldinho (ai tempi al Barcellona) che riceveva un paio di scarpini bianchi in una valigetta d’oro, e poi colpiva a ripetizione la traversa: alla fine – just do it – saltava fuori il logo del marchio globale. Poi il moltiplicatore è impazzito ed è nato il “billion-views club”, l’olimpo dei contenuti capaci di solcare la soglia del miliardo. E nonostante la fisicità non proprio da runner, il primo a tagliare il traguardo è stato Gangnam Style di Psy, il 21 dicembre del 2012, giorno tra l’altro dell’apocalisse planetaria secondo il calendario Maya. Che da corretta interpretazione non indicava però la fine del mondo, bensì l’inizio di un nuovo ciclo. Certamente per la piattaforma di videostreaming, che da quel momento ha visto i videoclip musicali occupare tutte le prime posizioni della classifica ufficiale. Anche perché in concomitanza, in questo scervellante mediamaking, Mtv cessava di concentrarsi sulla musica e iniziava a produrre reality show tamarri come Jersey Shore e The Real World, lasciando a YouTube campo liberissimo. E così, oggi, tutte le posizioni apicali delle clip più viste nei vent’anni di storia sono occupate da musicarelli: inamovibile in pole position c’è Baby Shark, il primo a toccare quota 10 miliardi e ora arrivato a 15, uscito esattamente dieci anni fa come canzoncina di una serie per bambini prodotta dagli studios coreani Pinkfong. Poi c’è Despacito, non nella versione featuring Justin Bieber ma in quella con Daddy Yankee e soprattutto la modella portoricana Zuleyka Rivera, dorata come il bronzo, ex miss Universo 2006. Quindi, in fila, altri tre brani per bambini: Wheels on the Bus e Bath Song, molto poco artigianali bensì prodotti da una società angloamericana fondata da un ex dirigente Disney, finanziata dal colosso di investimenti Blackstone che a sua volta si sta comprando lo spinoff americano di TikTok, finito fuorilegge. Quindi Johnny Johnny Yes Papa, altra filastrocca epitome dei ragazzini che riescono a star seduti a tavola solo con un telefono appoggiato al biberon. Dodici video tra i top venti sono così: colorati e ridondanti strumenti di ipnotizzazione infantile.
E c’è da immaginare che mentre i figli guardano la ranocchia in 3d di Crazy Frog (5 miliardi di views), genitori e nonni si tuffano nei tempi andati: November Rain dei Guns N’ Roses è il primo video uscito pre-YouTube a raggiungere quota 1 miliardo, e ora staziona in posizione 102 tallonato da Propuesta Indecente di Romeo Santos. Il contenuto degli anni Settanta ad entrare nel “billion club” è invece Bohemian Rapsodhy dei Queen, surclassato però di ben 60 posizioni da La Vaca Loca.
Che poi, va tenuto conto che ci sono anche il tasto “mi piace” e “non mi piace”, e perciò non è detto che i video più visti siano anche i più graditi: in questa chart meno oggettiva, ad esempio, i contenuti per l’infanzia praticamente spariscono. Un po’ perché i neonati non sanno premere il pulsantino col pollice alzato e un po’ perché i genitori, dopo un po’, quelle filastrocche le detestano. E in perfetta ottica di eterogenesi dei fini e imprevedibilità del messaggio, in cima agli sgraditi c’è Rewind 2018, un carosello lungo otto minuti che riassume il meglio uscito in quell’anno: un reel pensato, creato e montato dagli stessi creativi di YouTube. Che l’hanno presa con sportività e lasciano che il loro pubblico si sfoghi, visto che tanto è tutto un abbaiare senza mordere: gli indicatori confermano che i loro utenti, tra tutte le piattaforme assimilabili o rivali, sono quelli che meglio sopportano e digeriscono le inserzioni pubblicitarie. Perciò, senza capirci nulla, la domanda è sempre la stessa: mentre il media fa, tu che cosa fai?