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 2025  aprile 24 Giovedì calendario

Sanità, il flop della riforma del territorio. Funziona solo il 2% delle strutture

Mentre Governo e Regioni litigano, incapaci di sciogliere il nodo del contratto dei medici di famiglia, che non ne vogliono sapere di andare a lavorare nelle case di comunità, la riforma dei servizi sanitari territoriali finanziata con 2 miliardi del Pnrr si sta trasformando in un flop. A certificarlo è il nuovo monitoraggio dell’Agenas, che su 1.717 nuove strutture programmate da aprire entro giugno 2026 per non perdere i soldi dell’Europa certifica che appena 46, il 2,7%, sono funzionanti con tutti i servizi previsti attivati. Ossia assistenza medica di base, visite specialistiche, accertamenti diagnostici di primo livello, riabilitazione, assistenza domiciliare e larga parte di quello che attiene all’offerta sanitaria al di fuori delle corsie ospedaliere.
Con almeno un servizio attivato si contano 485 strutture, delle quali 138 in Lombardia, 125 in Emilia Romagna, che sono in testa alla classifica, mentre a metà si trova il Piemonte con 28 Case di comunità aperte. Il che non significa che offrano quello che dovrebbero offrire in base agli standard fissati dal decreto ministeriale “77” del 2022. Anche perché in sole 158 strutture, il 9,2% di quelle previste, è rilevata la presenza dei medici e in 122 degli infermieri. Tant’è che in sole 333 Case di comunità sono attive le attività consultoriali, in 361 vengono garantiti interventi di salute pubbliche come le vaccinazioni, in 366 si fanno i programmi di screening per prevenire i tumori, mentre i servizi di salute mentale sono attivi in appena 232 strutture.
Ma le cose vanno in genere male al Centro e ancor più al Sud, dove le poche Case di comunità attivate sono solo delle scatole vuote. Prendiamo i servizi di assistenza domiciliare. Se in 313 maxi ambulatori, poco meno della metà dei 667 del Nord è stata attivata, al Centro il numero cala a 86 su 397, al Sud si scende a 15 su 653 strutture programmate. L’attività specialistica doveva essere un altro punto di forza delle nuove Case di comunità, dove uno va per farsi dare un’occhiata dal medico di famiglia che casomai ti manda dallo specialista nella porta accanto. Ma al Nord la cosa è fattibile in 308 strutture, al Centro in 103 al Sud a mala pena in 18. Altro punto qualificante è la possibilità di eseguire esami diagnostici di primo livello: elettrocardiogramma, holter pressorio, ecografie, Rx. Che sarebbe anche un modo per alleggerire le liste di attesa. Peccato che al Nord la cosa sia fattibile in 258 strutture su 667, al Centro in 88, al Sud in appena 19.
Le cose non vanno granché meglio per gli ospedali di Comunità, strutture a conduzione infermieristica dove si dovrebbero assistere i pazienti fragili che non hanno più bisogno del ricovero in corsia vero e proprio, ma che non possono ancora tornare a casa. In tutto, 568 strutture programmate, ma di queste solo 124 risultano attivate (43 nel solo Veneto, 25 in Lombardia e 21 in Emilia Romagna). La presenza di un medico almeno 4 o 5 ore al giorno per sei giorni la settimana è garantita però solo in 90 strutture, ossia in appena il 15,8% dei casi. Mentre gli infermieri, fulcro degli ospedali di comunità, sono presenti 24 ore al giorno e 7 giorni su 7, come dovrebbe essere, solo nel 20,8% delle strutture, ossia in 118 su 568. Anche qui con una forte concentrazione in Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, mentre nel resto d’Italia è pressoché un deserto.
Ma se a frenare gli ospedali di Comunità è la carenza di personale infermieristico, visto che secondo l’Ordine ne mancano 60mila negli ospedali e altri 30mila nel territorio, nella Case di comunità il problema è anche quello della resistenza dei medici a volerci lavorare. Quelli di famiglia oggi tengono infatti aperti i loro studi solo 4 giorni su sette per in media 14 ore a settimana, mentre i loro colleghi specialisti delle Asl, pagati a ore, ne lavorano in media una decina a settimana secondi i dati in possesso del ministero della Salute. Ora con questi ultimi il ministro Schillaci vorrebbe fare un accordo per portare a 18 ore settimanali la loro presenza nelle Case di comunità, mentre più complicato è il discorso per i medici di famiglia. L’idea iniziale delle Regioni e dello stesso titolare della Salute era quella di portare almeno i giovani dottori a un rapporto di dipendenza dalle Asl in modo da poter coprire quelle aree disagiate del Paese che rischiano di rimanere senza assistenza medica di base. Questo lasciando al cittadino la libera scelta del medico di fiducia. Fermo restando che quando questo non è presente nella Casa di comunità se ne può trovare un altro che con un colpo di click apre il nostro fascicolo sanitario elettronico per sapere tutto della nostra condizione clinica. Ma la resistenza del potente sindacato di categoria, la Fimmg, ha spaventato un po’ tutti, Premier compresa. Ecco allora affacciarsi un’altra ipotesi caldeggiata da Schillaci: lasciare a giovani e meno giovani l’opzione tra il rapporto di lavoro dipendente o libero professionale in convenzione, com’è oggi. Prevedendo però, sempre per tutti, un orario obbligatorio, dalle 18 ore settimanali in su, da lavorare nelle case di Comunità. Per evitare che diventino delle cattedrali nel deserto, come certifica ad oggi l’Agenas.