corriere.it, 23 aprile 2025
Pietro Parolin, l’affetto del paese di Schiavon per il cardinale papabile: «Ha il talento del diplomatico, diceva messa già a 6 anni»
Se non cercano un successore ma un erede, quello è lui: Pietro Parolin, classe 1955, uno che la trafila se l’è fatta tutta, nato poco sotto Marostica, a Schiavon, seminario a Vicenza, parroco a Schio, nominato vescovo, poi cardinale e, infine, da dodici anni, Segretario di Stato del Vaticano che è come dire primo ministro delle mura leonine. Sempre sotto l’ala di papa Bergoglio. In seminario lo chiamavano «Il Chiesa», e non per malanimo – figuriamoci – è che l’attitudine alla diplomazia, la capacità di smussare, sedare e addolcire ce l’aveva innata, fin da piccolo, così, se proprio non riusciva a stemperare, laddove c’era da dare qualche ragione dei misteri teologici, nelle dispute tra novizi concludeva sempre così: «Cosa volete che vi dica, è la Chiesa».
«Chiamatemi don Piero»
Papabile, candidabile, messo bene nei picchetti degli allibratori inglesi. Poi magari non sarà così e «pour cause», l’eredità di Francesco non sembra replicabile. Epperò, e sempre se, se lo Spirito Santo – che è poi quello che sussurra alle orecchie dei cardinali – nel segreto del Conclave dovesse decidere per lui, per uno che è venuto da quella «fine del mondo» che era il Veneto negli anni ’50, beh allora il suo nome è quello giusto.
Per i parrocchiani di Schiavon non sarà un problema. L’ultima volta è stato a Pasqua dell’anno scorso e anche allora, a quelli che, intimiditi, lo avvicinavano non sapendo bene come dovessero rivolgersi all’eccellenza sua, rispondeva sempre: «Chiamatemi don Piero, io per voi sarò sempre don Piero». Chi nasce Pietro all’anagrafe, in Veneto sarà sempre Piero.
Giovanni Bertinazzo era ragazzo quando Pietro Parolin era bambino, vivevano nella stessa casa di via Roma sullo stradone, al piano terra il negozio di ferramenta dei Parolin, un bagno in comune, la cucina dove mangiavano tutti e, sopra, tre camere da letto in cui stavano in sette, lui, la moglie Maria, il figlio Maurizio, il piccolo Pietro Parolin con il papà Luigi, la mamma Ada Miotti e l’ultima nata Maria Rosa.
«Da bambino giocava a celebrare la messa in terrazza»
«Me lo ricordo a sei anni – racconta Giovanni Bertinazzo – si metteva il grembiule di sua madre e celebrava messa in terrazza, a suo modo. Noi lo si guardava fare quel gioco e magari si rideva, mai avremmo pensato che fosse una vocazione. A quell’età poi».
«Vivemmo insieme per sette mesi, nel 1963, io avevo preso in affitto il loro negozio quando i Parolin non avevano ancora la casa dove poi sarebbero poi andati a vivere, più giù, sempre in via Roma».
Il negozio di ferramenta è ancora lì, ha solo cambiato lato e proprietà, adesso sta dall’altra parte della strada, migrato assieme ai ricordi.
Li conserva intatti il figlio del titolare, Maurizio: «Non lo vediamo spesso dati gli impegni, ma agli appuntamenti importanti c’è sempre. Il 24 di settembre scorso arrivò che stavamo festeggiando i 95 anni della mamma Ada. Eravamo a tavola al ristorante Due Ponti, lui entrò e si sedette tra di noi. Per me è sempre stato un Papa».
«Viene da una scuola che coltiva la fede e i suoi dubbi»
Un Papa bergogliano, se fosse, mite senza essere bonario, fermo senza risultare ultimativo – «in tutto dobbiamo essere moderati, fuorché nella testimonianza del Vangelo, non c’è mai il rischio di essere radicali nel seguire Gesù» – detto con la calata veneta che fa di lui un «expat» come lo faceva la lingua argentina per Francesco e il tedesco per Ratzinger. Un bergogliano in salsa veneta che, alla maniera del predecessore, si annuncia sempre con un «buongiorno».
«In seminario avevamo lo stesso professore di teologia – ricorda il parroco don Aldo Bertelle – gli stessi piatti da lavare e gli stessi pavimenti da pulire, con la comunione delle preghiere, naturalmente. Parolin viene da una scuola che coltiva la fede e i suoi dubbi, a leggere troppo la Bibbia si rischia di perderla, ammoniva il prof di teologia per poi aggiungere: certo che se non tutto è vero quel che dice è scritto bene».
Contro i respingimenti
Pietro Parolin è la Chiesa, ne ha tutto il senso atemporale e tiene alla sua dimensione istituzionale calata nel mondo – «non siamo uno stato nazionale, ma universale» – di Bergoglio possiede l’irruenza delle fede e la determinazione nel testimoniarla – «dobbiamo essere innamorati di Gesù» – con Bergoglio si è dichiarato «contro le politiche di ripulsa» – così chiama i respingimenti – non si nasconde le difficolta poste dalla mondanità: bisogna «evangelizzare in maniera attrattiva», ha detto, «bisogna combattere la globalizzazione dell’indifferenza».
Papà commerciante, fratello procuratore, sorella insegnante
«Nel sentirlo riconosco il diplomatico che era ai tempi del seminario – dice don Aldo Bertelle – che non mollava il punto riprendendo sempre i contrasti da dove potevano sembrare insolubili. Se proprio doveva abbozzare, se non aveva altro modo di uscirne, ricorreva all’indicibile, al mistero più grande che è la Chiesa. Era il Chiesa, appunto».
Pietro Parolin è un babyboomer, uno di quelli nati negli anni ’50 per i quali il futuro poteva essere generoso, quando con la famiglia giusta niente ti era precluso. La mamma maestra, il papà commerciante morto che lui aveva 9 anni – piccola borghesia di cultura popolare – due altri fratelli. Tutti hanno studiato, Giovanni è procuratore presso il tribunale di minorile di Venezia, la sorella Maria Rosa insegna a Verona.