la Repubblica, 16 aprile 2025
Intervista a Jan Ullrich
Trent’anni fa il ciclista arrivato dal futuro aveva i capelli rossi, le lentiggini e spianava le salite con la grazia di un carro armato. Sulla benzina (Epo e altro) da qualche tempo ormai, sappiamo tutto. Ma a 51 anni, dopo aver toccato tutti i fondi possibili, Jan Ullrich ha ritrovato una grazia postuma. Quella dell’eroe traditore e colpevole che prova a redimersi con la verità.
Un Tour vinto nel 1997, uno perso da Pantani l’anno dopo, una Vuelta (’99), un oro olimpico. Il doping, la droga, la dipendenza dall’alcol. Oggi chi è Jan Ullrich?
“La mia vita è cambiata molte volte. Mi sono concentrato sulla mia famiglia e sulla mia salute personale. Ho ancora qualche idea da portare nel ciclismo, ma in maniera molto più “quieta” di un tempo e da un’altra prospettiva. Sto cercando di usare il mio tempo in modo diverso. Sto provando a mettermi gli errori alle spalle e a guardare oltre”.
Cos’era il ciclismo negli anni delle sue battaglie sulle montagne con Armstrong e Pantani?
“Il ciclismo, a quei tempi, era fortemente influenzato dalla pressione e dalle aspettative di tanti: tifosi, sponsor, tv, case produttrici. Il doping era il mondo in cui dovevamo muoverci, il mare in cui dovevamo nuotare, era dovunque. Il ciclismo ha imparato molto da quegli anni. I sistemi di controllo sono migliori ora e più organizzati professionalmente e i ciclisti sono più consapevoli, più sensibilizzati e informati. Credo che quell’epoca in cui purtroppo mi sono trovato a vivere non tornerà mai più”.
Faccia una classifica dei suoi ricordi.
“Al primo posto a pari merito la mia vittoria al Tour e quella alla Vuelta. Il 1997 è stato un anno di svolta per me: Parigi in maglia gialla è una gioia per pochissimi e a me è capitata. Anche il successo finale alla Vuelta del 1999 è stato un momento fantastico: avevo perso il Tour l’anno prima contro Pantani. Fu la dimostrazione della mia tenacia, della mia forza di uomo, oltre che di ciclista”.
Il Galibier, il Tour ’98. Pantani che parte, lei che evapora nella pioggia. Per molti italiani è uno dei più straordinari ricordi sportivi della vita. E per lei?
“La sorprendo: sul Galibier nel 1998 ho vissuto uno dei momenti più emozionanti della mia carriera. È stata una giornata estremamente dura e ho dovuto affrontare molte sfide fisiche e mentali in quei minuti. Quando sono arrivato in cima ho vissuto un misto di sollievo e orgoglio. E anche se alla fine ho perso il Tour, quello è stato un momento che mi ha mostrato quanta strada avevo fatto come corridore e come persona. Quella sconfitta mi ha cambiato in meglio”.
Cosa ha provato quando ha saputo della morte di Pantani?
“Marco era un corridore eccezionale, uno degli scalatori più talentuosi che il ciclismo abbia mai visto. Le sue qualità in montagna erano quasi magiche. Marco era un grande amico e mi è dispiaciuto molto che non sia riuscito a trovare il supporto di cui aveva bisogno. La perdita di un talento così unico è uno dei capitoli più tristi nella storia del ciclismo, che di lutti e drammi ne ha conosciuti tanti. Il nostro è uno sport magnifico e tragico. Diverso da tutti gli altri”.
Dopo il suo ritiro ha vissuto anni segnati dalle dipendenze. Come ne è venuto fuori?
“Ho lottato molto contro la droga e l’alcol, e questa è una cosa di cui mi vergogno. È stato un periodo di autodistruzione durante il quale ho preso molte cattive decisioni. Ho lavorato molto su me stesso e sto cercando di guarire. È passato, ma non posso annullare gli errori: fanno parte di me e della mia storia”.
Le ha dato una mano Lance Armstrong.
“Lance e io abbiamo condiviso un passato complicato e la nostra grande amicizia si è sviluppata nel corso del tempo. Negli ultimi anni mi ha aiutato ad affrontare meglio le sfide della vita e lo apprezzo molto. Non voglio banalizzare e semplificare gli errori che abbiamo commesso. Ciò che conta è come reagisci grazie o a causa di essi, come vai avanti”.
Vi vedete spesso?
“Abbastanza spesso. Per il 17 e il 18 maggio ho organizzato una pedalata con Lance, Mario Cipollini, Bradley Wiggins e altri grandi corridori del passato a Bad Dürrheim, nella Foresta Nera. Una festa: lo “Jan Ullrich Cycling Festival”, un raduno di amatori e campioni che non si vedeva da decenni, unico nel suo genere. Sono elettrizzato”.
Segue il ciclismo di oggi?
“Certo. Pogacar, Van der Poel e Vingegaard sono tutti davvero impressionanti. Tadej è il ciclista perfetto. Van der Poel è una ventata di energia e Vingegaard ha una grande costanza. Una qualità che apprezzo in un corridore è la sua versatilità, la capacità di essere competitivo su più terreni”.