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 2025  aprile 14 Lunedì calendario

Siamo davvero attrezzati per resistere alla recessione americana? Le liti fuori dal tempo tra Roma e Parigi

Sono abbastanza stagionato da ricordare come reagì il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, quando nel febbraio del 2008 il Fondo monetario internazionale abbassò le sue stime di crescita dell’area euro. Allora la febbre finanziaria si trascinava a Wall Street da mesi, gli Stati Uniti erano in recessione, la banca d’affari Bear Stearns strangolata. E Juncker, in seguito presidente della Commissione europea, reagì con fastidio all’Fmi che aveva limato le previsioni di crescita sull’area euro dal 2% all’1,6%: «Per niente credibile». Aveva ragione: il Fondo si sbagliava, ma in senso opposto a quello che intendeva Juncker; alla fine dell’anno la zona euro registrò uno 0,4%, poi nel 2009 precipitò a meno 4,5% (quasi il doppio peggio degli Stati Uniti, da cui la crisi era nata). Così partì la crisi dell’euro.
Quel clima di presunzione e compiacimento all’innesco della crisi mi torna in mente oggi che l’Europa osserva le sbandate di Donald Trump sui dazi. Il messaggio al mondo, neanche troppo implicito, è: noi sì che siamo affilabili, su di noi potete contare. Ma davvero siamo al riparo da una recessione americana, che il capo di Blackrock Larry Fink ha già annunciato? Siamo sicuri che una crisi di credibilità del dollaro o del debito pubblico americano lascerebbe indenni l’area euro e i suoi Paesi più fragili?
I rischi e le opportunità per l’Europa
Queste domande contano oggi, fra le altre, per due ragioni. La prima è che, a differenza dell’anno 2008 e seguenti, l’amministrazione americana non sembra tenere alla stabilità dell’area euro; il vicepresidente JD Vance non poteva essere più chiaro in proposito alla Conferenza per la sicurezza di Monaco. Il secondo fattore è che rispetto al 2008, ma da prima del ritorno di Trump, viviamo nell’epoca della coercizione economica: i governi la usano sempre più spesso contro altre potenze per arrivare ai loro obiettivi politici. Il clima è dunque diverso e, per certi aspetti, da allora non è migliorato. Dunque per l’Europa è tempo di scuotersi. Corre dei rischi. Ma potrebbe avere delle opportunità, se i suoi “leader” decidessero finalmente di meritarsi una simile definizione. Vediamo.

La cifra del tempo
Che la coercizione economica sia la cifra del tempo, con l’uso di mezzi finanziari, commerciali o tecnologici per piegare altri Paesi, è indiscutibile. Può piacere o no, ma gli strumenti del trentennio d’oro della globalizzazione post-1989 appaiono oggi archeologia: allora si gestivano i dissidi in organismi multilaterali dalle regole condivise quali il G7, il G20, l’Fmi, la Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale del commercio o magari il Club di Parigi per il debito dei Paesi poveri.
Nell’era dei dazi di Trump e Xi Jinping, della guerra di aggressione di Vladimir Putin, questo sistema ufficialmente sopravvive. Ma è vuoto come la corazza del «Cavaliere inesistente» di Italo Calvino. O come la Società delle Nazioni fra le due guerre. Oggi contano la capacità di pressione con gli strumenti della moneta, del sistema dei pagamenti, dell’accesso al mercato, contano l’accesso alle tecnologie, i dati, i social media o le sanzioni contro individui o organizzazioni. I dazi sono la più rozza delle armi della coercizione, ma questa coinvolge tutte le innovazioni del secolo.
Esempi? Coercizione economica è quando l’amministrazione Trump cerca di forzare l’Ucraina ad accettare un accordo sulla cessione dei giacimenti minerari in termini draconiani, sotto la minaccia del ritiro del supporto americano per le difese antimissile di Kiev.
Coercizione è anche quando la Cina cerca di obbligare la Russia a vendere il proprio petrolio o il proprio gas sottocosto, in cambio delle forniture di tecnologie della Repubblica popolare necessarie per l’apparato militare-industriale del Cremlino. È poi anche quando il segretario al Tesoro americano Scott Bessent, nel pieno dello scontro sui dazi, fa capire che gli Stati Uniti potrebbero espellere le società quotate cinesi da Wall Street. O quando la Russia cerca di piegare la volontà dei Paesi europei nell’aiutare l’Ucraina riducendo e tagliando le forniture di gas nel 2021 e 2022. O ancora quando la Cina si fa cedere un porto dello Sri Lanka in posizione strategica nell’Oceano Indiano, dopo aver prestato talmente tanto che il debitore dello Sri Lanka fa default. Ma coercizione economica sono anche le decine di migliaia di sanzioni su imprese, prodotti e individui, con cui i Paesi democratici cercano di rallentare l’aggressione della Russia all’Ucraina (un approccio utile, in assenza di alternative migliori).
L’elenco potrebbe continuare. Non è un fenomeno nuovo, lo è semmai la sua intensità in questo secolo. Del resto essa è coerente con un mondo in cui il diritto internazionale resta la facciata, dietro la quale quasi le principali potenze applicano il diritto del più forte. A mettere a fuoco questa tendenza è Abraham Newman della Georgetown University: uno studioso di relazioni internazionali, non un economista. Nel suo libro con Henry Farrell che fonda un nuovo campo di ricerca («Underground Empire: How America Weaponized the World Economy», «L’impero sotterraneo: come l’America usa l’economia mondiale come un’arma», 2023), Newman sostiene appunto che sono stati gli Stati Uniti i primi a reintrodurre la coercizione economica soprattutto dopo l’11 settembre 2001. È successo anche sotto Joe Biden – aggiungo – con vari fallimenti. La sua amministrazione cercò di frenare il progresso cinese nell’intelligenza artificiale, vietando la vendita nella Repubblica popolare di semiconduttori avanzati e dei macchinari per produrli. Il colosso olandese ASLM ha dovuto interrompere le vendite in Cina di sistemi litografici per semiconduttori, con vaste perdite di fatturato, per non restare tagliata fuori dagli Stati Uniti. Risultati? Nulli. Senza le macchine ASML o senza i semiconduttori americani di Nvidia, i ricercatori cinesi si sono ingegnati a sviluppare DeepSeek: un sistema altrettanto efficiente ma molto meno costoso rispetto alla californiana ChatGPT. E da quest’anno nella Repubblica popolare è diventato obbligatorio lo studio dell’intelligenza artificiale dalla prima elementare, proprio per rendere il Paese meno vulnerabile a qualunque forma di coercizione tecnologica.
«Rivedere l’ordine liberale»
Ho cercato il professor Newman per capire come vede questa tendenza sotto Trump. Mi ha detto: «Lui vuole rivedere l’ordine internazionale liberale, non gli piacciono le regole che lo limitano. I dazi sono un attacco a quest’ordine e un tentativo di fissare nuove regole del gioco: ogni Paese, se vuole uscire dalla pressione dei dazi, dovrà negoziare singolarmente con gli Stati Uniti. Ogni governo dovrà andare a Washington e chiedere un’eccezione, un trattamento speciale – mi ha detto Newman –. Così Trump punta a instaurare rapporti di dominazione con i vari Paesi e anche con singole aziende: dovranno pagare un tributo da cui lui può estrarre risorse, semmai da redistribuire agli alleati se lo ritiene».
Accordi Fed-Bce
Resta da capire, oltre ai dazi, quali altre forme potrebbe prendere il tentativo di coercizione all’Europa. Quanto a questo, i banchieri centrali dei principali Paesi stanno parlando molto in queste settimane delle swap lines: le finestre di liquidità in dollari fra Federal Reserve e Banca centrale europea. La disponibilità di prestiti in dollari è essenziale per le banche commerciali ovunque nel mondo a causa del ruolo del biglietto verde come grande moneta di riserva e di scambio internazionale. Anche gli istituti privati europei hanno parte dei loro finanziamenti in dollari, di solito a scadenza di pochi giorni o di due settimane, e normalmente rimborsano accedendo a sempre nuovi prestiti nella stessa valuta. In una crisi, tuttavia, la fiducia crolla e la liquidità smette di circolare – ogni istituto trattiene per sé la propria – dunque solo la banca centrale può evitare che una banca privata faccia default o vada sotto stress sui suoi debiti, prestandole liberamente. Ma la Bce non stampa dollari. Non può prestarli se non accede a una swap line con la Fed («linea di scambio»: in cambio di euro la Fed fornisce dollari alla Bce, che li trasferisce alle banche europee). Per questo esiste un accordo della Fed con sue pari di Francoforte, Tokyo, Londra o Berna: nel 2008 le swap lines sono arrivate a trasferire 583 miliardi di dollari e durante il Covid 449 miliardi. Senza questo, chissà quali altre Bear Stearns o Lehman il mondo avrebbe rischiato.
Oggi, sotto Trump, quelle swap lines non appaiono più così scontate. Serve un’autorizzazione del Congresso alla Fed da rinnovare una volta all’anno e nel Congresso a guida repubblicana si levano sempre più spesso voci contro il “salvataggio” degli altri Paesi a spese degli americani (conoscete la retorica trumpiana). La Casa Bianca potrebbe essere tentata di usare l’accesso dei Paesi terzi alle swap lines come leva di coercizione. Sarebbe la rinuncia alla funzione del dollaro come moneta di riserva del mondo, e della Fed come prestatore di ultima istanza del sistema: si entrerebbe in scenario ignoto in cui, come minimo, tutto il credito diventerebbe meno abbondante e più costoso.
Contromosse europee
Cosa può fare l’Europa? Contro azioni destabilizzanti di Trump, non molto. Ma può aiutarsi con un’emissione di un grosso eurobond per finanziare la difesa europea e la creazione di un vero grande mercato dei capitali in euro, che nel tempo offra al resto del mondo un’alternativa a Wall Street. Un eurobond da almeno mille miliardi di euro sarebbe comprato dai fondi sovrani dell’Asia e del Golfo quale (parziale) alternativa al dollaro. Rafforzerebbe l’euro come moneta di riserva internazionale. E una sola grande borsa europea in euro offrirebbe una (parziale) soluzione a imprese di tutto il mondo – cinesi incluse – che non si fidano più di Wall Street. Ci metteremmo così un po’ più al riparo dai tentativi di coercizione e dai contraccolpi di una recessione o di una crisi finanziaria americana.
Non risolveremmo tutto – il dollaro e Wall Street non sono rimpiazzabili facilmente – ma sarebbe un grosso passo avanti. Perché non lo facciamo? Perché siamo abbagliati dalle luci del treno in corsa di Trump che minaccia di travolgerci. Perché siamo fermi per provincialismo, gelosie, diffidenze e maldicenze fra governi europei, dove ne spicca una in particolare: fra Italia e Francia; fra Giorgia Meloni e Emmanuel Macron (nella foto sopra). Quei due sono sulla stessa barca, hanno gli stessi interessi, ma litigano in un modo – dall’esterno – incomprensibile. Il loro scontro è fuori dal tempo, hanno torto entrambi ad alimentarlo. Avrebbero entrambi pari responsabilità, se non si mettono subito insieme al lavoro perché l’Europa si faccia trovare pronta: non come nel 2008.