Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  aprile 13 Domenica calendario

Intervista a Mauro Gambetti

Ingegnere, un metro e 90, 59 anni, francescano, il cardinale Mauro Gambetti è stato per sette anni il custode della tomba di San Francesco, e ora è l’arciprete della basilica di San Pietro e vicario del Papa per il Vaticano. Ha insomma esplorato le due dimensioni della cristianità: il chiostro e il Cupolone, il monastero e il potere, Assisi e Roma.
Eminenza...
«... Fra Mauro».
Fra Mauro, lei viene da una famiglia di imprenditori.
«Il nonno aveva un podere, che per tradizione spettava al primogenito. Mio padre era il secondo di quattro figli, fu l’unico a studiare: perito tecnico. Aveva intraprendenza e una sua genialità, così aprì un’azienda di riparazione macchine agricole».
Come si chiamava?
«Ermenegildo, come lo zio di suo padre, morto missionario in Sud America, di malattia. Un altro zio, Carlo, era Canonico nella nostra città, Imola».
E lei quando ha avuto la vocazione?
«La prima volta ero piccolo, avevo undici anni. Il parroco ci chiese cosa fosse per noi la preghiera. Quello che stavo dicendo stupì anche me. Diventai tutto rosso. Lì avvertii per la prima volta il tocco di Dio. Una carezza sul cuore».
E il parroco?
«Probabilmente se ne accorse e disse: “Se qualcuno di voi pensa di entrare in seminario, quando verrà a confessarsi me lo dica”. Mi venne una gran paura, e non dissi nulla».
E la seconda volta?
«Arrivò molti anni dopo. Da ragazzo avevo voglia di divertirmi, di essere felice, di realizzarmi. Erano gli anni 80. La vita clericale non è che mi attraesse molto. Il mio mito era Gianni Agnelli. Sognavo di diventare un grande imprenditore e magari un benefattore. Avevo buoni amici, tra cui il mio compagno di classe Stefano Domenicali, che ora è il capo della Formula Uno. Mi iscrissi a ingegneria. E mi fidanzai con Cristina».
Cosa non funzionò?
«Nulla. La vita di coppia è un incanto. Ne sono convinto tutt’ora: trovare un equilibrio tra due opposti, l’uomo e la donna, è la condizione di massima felicità per un essere umano. Eppure, l’esperienza dell’amore mi riportava all’amore di Dio, mi riproponeva la domanda sul senso della vita».

E si ritirò in convento.
«Non subito. Incontrai un vecchio amico, che voleva entrare in seminario. Mio fratello Fabio, che è quello bravo della famiglia, ora fa il preside, mi parlò dell’amore di Dio. Ripresi in mano la Bibbia per cercarlo. La lessi tutta, dall’inizio alla fine, capendone poco. Eppure da quel libro emergeva un disegno che mi ha sovvertito. Partii per un campo estivo nella tendopoli dei passionisti, al santuario di San Gabriele dell’Addolorata, sul Gran Sasso. Al ritorno, tornai in parrocchia. Furono sorpresi di rivedermi, dopo tanto tempo. Era una comunità un po’ particolare...».
Perché?
«Il parroco della mia fanciullezza si era innamorato, ma pretendeva di sposarsi senza lasciare il ministero sacerdotale. I suoi seguaci la occuparono. Intervennero i carabinieri. Il catechismo si faceva in un garage. Insomma, uno scandalo, che nel tempo il vescovo riuscì ad arginare. Ma ricordo ancora il cartello: “Anno zero, Gesù nasce in una stalla. 1975, Gesù nasce in un garage”».
Torniamo alla sua vocazione. Quanti anni aveva?
«Stavo per compierne 24. Il nuovo parroco mi diede qualche libro da leggere. Ma poi mi disse: “O ti fidi, o non ti fidi”. Qualcosa scattò dentro di me. Quest’idea di fidarmi di Dio, e di affidarmi a lui. Mi confessai. Tornai a messa. E il Vangelo di quella domenica era la parabola del figliol prodigo».
E la fidanzata?
«Ci volevamo un gran bene, parlavamo di matrimonio. Ma non ero sicuro che quella fosse la mia strada, e glielo dissi. Mi sentivo come se mi fossi infilato un vestivo in cui non mi ritrovavo fino in fondo
. Incontrai i frati minori conventuali, a Bologna. Feci il servizio militare. Poi passai una settimana nel sacro convento di Assisi. Ne uscii con la consapevolezza che Dio è libertà, e vuole la libertà dei suoi figli, come un padre. A quel punto decisi di consegnarmi a lui. E scoppiai a piangere».
Perché?
«Perché Dio aveva scardinato la realtà, l’aveva fatta esplodere».
E a Cristina come lo disse?
«Non avevo il coraggio di farlo. Fu lei a rompere gli indugi. Mi scrisse una lettera bellissima, in cui mi diceva tutto il bene che mi voleva, e che proprio per questo avrebbe accettato qualsiasi mia decisione. Credo sia stato meglio anche per lei. Si è sposata, ha avuto un figlio».

E lei è tornato ad Assisi.
«Sì. Dopo la laurea, Assisi, poi a Osimo, e ancora Assisi. Ho studiato teologia. Sono diventato frate e sacerdote».
Lei presiede una fondazione che si chiama come un’enciclica del Papa, «Fratelli tutti», e ora ha pubblicato un libro, «Il Vocabolario della fraternità», curato da padre Francesco Occhetta. Ma questo non è il tempo dell’insulto, del discorso dell’odio? Non è che avete sbagliato titolo?
«Secondo lei le mosche bianche sono un errore? Io penso che siano un’alternativa, una potenziale novità nell’evoluzione della specie, o anche solo una variante più bella. Il nostro Vocabolario è un punto di vista inverso, un approccio diverso alla vita, a un tempo antico e nuovo».
I due esempi di fraternità che lei fa nella postfazione, gli accordi Rabin-Arafat e la commissione di riconciliazione di Mandela, risalgono a 32 anni fa. Quasi un’ammissione di resa. La storia ha preso tutta un’altra direzione.
«Più che una resa, è un attestato della nostalgia politica che mi abita, e che spero possa risvegliare il desiderio dialogo iscritto nel cuore dell’uomo».
Altro che dialogo. Qui si riparla di bomba atomica.
«La bomba atomica non è il fondamento della pace, ma nemmeno il peggiore dei mali. Se non ci indigna la morte dei figli che concepiamo, non può spaventarci nemmeno la catastrofe nucleare».
Oggi è la domenica delle Palme, che apre la settimana santa. Cosa rappresenta oggi Gesù in croce?
«Gesù sulla croce è ognuno di noi. Chi accetta questa verità vede aprirsi davanti a sé la vita; chi la rifiuta scivola pian piano nel buio».
La Fondazione vorrebbe riscrivere la Carta dei diritti dell’uomo e preparare una Carta dell’Umano. Cosa c’è che non va nella Carta dei diritti?
«Nulla. Ma la dichiarazione dei diritti oggi non è più sufficiente a rendere ragione della dignità dell’uomo, e rischia di accentuare le divisioni. Le “tavole dell’umano” vorrebbero essere una piattaforma comune per l’incontro di tutti coloro che aspirano ad essere uomini».
Cosa è disumano?
«La mancanza di compassione».
La fraternità fa parte del motto della Rivoluzione francese, con la libertà e l’uguaglianza. La Chiesa si è riconciliata con l’illuminismo?
«Sì, ma la fraternità non l’hanno inventata i rivoluzionari francesi; Gesù è il primo vero fratello e ci dice di amarci l’un l’altro come fratelli. Inseguire l’uguaglianza fino all’eccesso ha portato al comunismo; esasperare la libertà ha portato all’iperliberismo di oggi».
Trump la preoccupa?
«Dagli eccessi del nazionalismo non è mai venuto nulla di buono. Ci sono molti modi per farsi la guerra, non solo con le armi. Le guerre moderne si combattono con la tecnologia, e si traducono sempre nell’affermazione sull’altro».
Sull’Ucraina però anche il Papa era parso giustificare la Russia, parlando al Corriere dell’«abbaiare» della Nato.
«Non è così. L’inclinazione di Trump verso Putin preoccupa. Però potrebbe risvegliare l’impegno e la responsabilità degli europei. La storia si è fatta imprevedibile».
Perché i preti non si possono sposare, o almeno gli sposati non possono diventare preti? Papa Francesco ci aveva pensato.
«Guardi, io sento nostalgia della vita di coppia. È la più bella tra le vite che si possono immaginare. Non vedo una forma più alta di riconoscimento dell’umano, perché ricompone la differenza tra uomo e donna e genera altri alla vita. Eppure difendo il celibato. Perché lo scelse Gesù. E perché il sacerdote deve essere lo “sposo” di tutti».
Come ha vissuto la malattia del Papa, e il suo ritorno?
«La malattia come una prova. L’abbiamo condivisa con lui nella preghiera, come l’immensa gioia del suo ritorno a casa».
Francesco riuscirà ancora a fare il Papa?
«Mi perdoni: Francesco è il Papa».
Com’è per lei passare da Assisi a San Pietro?
«Assisi, con la cripta dove riposa san Francesco, è la profondità della dimensione spirituale. San Pietro, con la cupola che sorge sulla tomba dell’apostolo, è il dilatarsi universale ed eclatante di questa profondità».
Come sta andando il Giubileo qui in basilica?
«Ci sono meno turisti e più pellegrini. Molti più fedeli si confessano, infatti abbiamo dovuto raddoppiare la squadra dei confessori: ora sono una quarantina».

Come immagina l’aldilà?
«Una diffusione di luce. Ci conosceremo e ci riconosceremo, al calore della fiamma divina che scalda e vivifica».
Sembra il Paradiso di Dante.
«Dante aveva capito tutto. C’è una sua immagine molto potente: le anime sono come braci di un fuoco incandescente, più luminose del fuoco stesso».