la Repubblica, 8 aprile 2025
Jolie. “La forza di Baricco insieme cerchiamo verità”
Capelli sciolti un po’ scarmigliati, canottiera chiara e braccia accarezzate da disegni, Angelina Jolie s’affaccia su Zoom da una località indefinita. Sorride: «Ho avuto la fortuna di passare del tempo in Amazzonia, ieri ho incontrato i capi tribù. Perciò ho qualche segno addosso».
La cineasta e attivista su Instagram si presenta come “mamma, filmmaker, inviato speciale dell’UNHCR”, l’agenzia per i rifugiati con cui in vent’anni ha fatto sessanta missioni sul campo. Da regista ha affrontato le conseguenze emotive e psicologiche dei conflitti, quello bosniaco inNella terra del sangue e del miele,la violenza dei khmer cambogiani in Per primo hanno ucciso mio padre.InSenza sangue, dal romanzo di Alessandro Baricco, in sala giovedì 10 con Vision Distribution, Jolie racconta la ricerca di giustizia e guarigione di Nina, ragazzina sopravvissuta all’omicidio di padre e fratello che anni dopo incontra uno degli assassini. Con Salma Hayek Pinault e Demián Bichir.
Quando ha incontrato “Senza sangue” e Alessandro Baricco?
«Ho letto il libro anni fa, in un momento della vita in cui riflettevo nel profondo sul ciò che viene dopo una guerra. L’ho letto come una meditazione, le parole sono profonde e squisite. Poi, tempo dopo, ho incontrato Baricco, uomo meraviglioso: non vedo l’ora di trascorrere più tempo nel suo istituto di scrittura a Torino. È stato bello parlare con lui prima di girare il film e capire come, a volte, il suo lavoro non sia stato compreso appieno. Non frainteso, ma forse semplificato. E io non volevo fare nessuna delle due cose».
Vi siete incontrati tante volte.
«Sì, e ogni volta siamo più vicini, ci conosciamo di più».
Lui ha apprezzato il film.
«So che lo ha detto pubblicamente, che sentisse il film fedele al libro era ciò che contava per me».
E come descrive il suo film?
«Una sorta di meditazione, un racconto vicino alla verità sui danni provocati agli esseri umani dalle guerre. E perciò per alcuni è scomodo: non è un film hollywoodiano che spiega tutto.
Non è semplice, non finisce in modo facile o rassicurante».
Non sembra che lei abbia cercato le cose facili o comode nella vita.
«In effetti sono il tipo di persona che non dà troppo valore alla comodità. Mi piace, cresco di più – non necessariamente nel disagio – ma nel cambiamento, ponendomiquestioni. Le conversazioni molto scomode e le realtà difficili sono quelle che hanno più impatto sulla tua crescita come essere umano».
Da regista ha spesso raccontato i traumi della guerra sui bambini.
«Sono le grandi vittime. Per un bambino vivere un conflitto, essere sfollato, è spesso un’esperienza insormontabile. E per chi riesce ad andare avanti, l’orrore, il trauma, non finisce quando viene firmato un accordo. C’è la grande questione della verità, responsabilità, riconciliazione reale, tentare di rivivere, accettare la perdita. È complesso. Non pretendo certo dicomprenderlo appieno ma ho cari amici che ci sono passati. E mi sento molto umile quando sono con loro».
Il libro è del 2002, il film sembra una fotografia dell’oggi.
«Sì, purtroppo. Baricco non ha voluto un tempo o luogo precisi perché sapeva che questa è parte della condizione umana, lo è sempre stata. Ma di sicuro oggi vediamo meno diplomazia, meno fine dei conflitti. Lavorando con i rifugiati, vedo che il numero aumenta e che spesso ci sono meno ritorno, stabilità, ricostruzione, sostegno per il futuro. Ci sono conflitti prolungati, sovrappostil’uno all’altro, e poca attenzione alla ripresa civile o alla protezione dei civili in un conflitto».
Ci sono pure meno aiuti, anche da parte del governo americano, per i Paesi che ne hanno bisogno.
«È una discussione più complicata, ma penso di sì. Penso anche che non ci sia mai stata abbastanza attenzione e l’intento giusti: se l’intento fosse stato aiutare davvero le popolazioni a commerciare equamente, possedere le proprie risorse, diventare indipendenti e forti – l’avremmo visto accadere.
Temo che a volte sia stata imposta una dipendenza forzata. E trovo tutto questo molto crudele».
L’esperienza in Amazzonia?
«Ci sto ancora riflettendo. Alcune cose diventano chiare quando sei con i popoli indigeni, che vivono in equilibrio e con rispetto per la natura e tra di loro. Ti chiedi se siamo noi a non saper vivere, o solo che ci siamo solo allontanati troppo da ciò che sappiamo, per natura, essere giusto. Non ho risposte, tranne che mi sono sentita privilegiata a essere tra di loro. Sono preoccupata per le loro terre, come tutti. E per il loro diritto a un’esistenza e a una cultura».