La Lettura, 6 aprile 2025
Hockney. Sono sempre rimasto un bambino che colora
L’altra notte David Hockney ha avuto un incubo. Stava cercando un pezzo di carta e qualcosa per scrivere, una matita o una penna, ma non trovava né l’uno né l’altra. Sarà stato un sogno turbato da un leggero senso di angoscia, come capita di tanto in tanto. È da notare, tuttavia, che mentre noi entriamo in ansia per timore di mancare un treno o un volo, Hockney s’innervosisce all’idea di avere smarrito qualche oggetto che appartiene alla sua arte.
Perché dipingere e disegnare fanno parte integrante della sua identità. Vittima di un leggero ictus una decina d’anni fa, l’artista confessa di aver pensato: «Se riesco ancora a disegnare, ce la farò» (e infatti così è stato). «Mi è sempre piaciuto scarabocchiare», ricorda, «me lo porto dietro sin dall’infanzia. Tutti sanno che i bambini si divertono un mondo a disegnare ghirigori con le matite colorate, e io non ho mai smesso».
Nulla di più vero. La prossima estate festeggerà il suo ottantottesimo compleanno, ma qualche mese prima, agli inizi di questo mese di aprile, viene inaugurata la più grande esposizione della sua carriera presso la Fondation Louis Vuitton a Parigi. Riempirà tutti e quattro i piani dell’edificio, e verrà introdotta da una selezione dei suoi primi capolavori, anche se la maggior parte delle opere esibite rappresenta la produzione artistica degli ultimi venticinque anni.
Durante questo lasso di tempo, David Hockney e io abbiamo collaborato alla stesura di tre libri e ho persino posato per un ritratto, trascorrendo insieme un’infinità di tempo a discutere e a riflettere sulle sue opere e le sue idee. Tutte le citazioni e le osservazioni che seguono provengono da questo quarto di secolo che ho passato immerso nel mondo dell’artista.
L’esposizione a Parigi offrirà un amplissimo panorama della sua produzione artistica a partire dalla metà dei suoi sessant’anni, dimostrazione tangibile di una straordinaria vitalità creativa che si è protratta anche nei suoi settanta e ottanta. A un’età in cui molti abbandonano l’attività lavorativa per andare in pensione e godersi il meritato riposo, Hockney non è stato solo immensamente produttivo, ma ha saputo innovare costantemente, adottare nuovi stili, sfruttare inediti mezzi creativi, tra i quali il disegno sull’iPhone, poi sull’iPad, i filmati realizzati con nove fotocamere in simultanea, e ancora il disegno digitale o assistito da computer. Di recente ha lavorato a un ambiente immersivo visivo e sonoro, con immagini proiettate sulle quattro pareti della stanza e persino sul pavimento, riscuotendo un enorme successo.
La pensione, commenta Hockney, «è per coloro che non amano quello che fanno». Mentre lui, chiaramente, è un artista convinto e appassionato. Una volta disse di Vincent van Gogh, un maestro che ammira profondamente, che la vita dell’olandese non doveva essere così tormentata come si è soliti pensare, dal momento che «trascorse dipingendo e disegnando la maggior parte dei suoi ultimi anni di vita, facendo ciò che amava. E questo si capisce dagli spazi che dipingeva. I suoi biografi, purtroppo, non sanno dirci nulla sul piacere che Van Gogh sicuramente traeva dalla sua arte».
Certo, Hockney si riferisce a sé stesso oltre che a Van Gogh. E uno dei segreti della sua arte sta nel modo in cui essa comunica l’immenso piacere che l’artista trae dall’osservazione delle persone e delle cose attorno a lui. Per Hockney, trasmettere piacere e suscitare emozioni dovrebbe essere «il requisito indispensabile» delle belle arti. Si può aspirare a raggiungere livelli superiori, certo, ma occorre cominciare dal piacere.
In occasione di una conferenza stampa negli Stati Uniti, un giornalista gli chiese: «Qual è il messaggio che vuole trasmetterci, signor Hockney?». In risposta a questo genere di domande, talvolta David Hockney ama citare il produttore hollywoodiano Sam Goldwyn, che sui significati profondi, presumibilmente racchiusi nei suoi film, affermava: «I miei messaggi li affido a Western Union» (società statunitense che si occupa in particolare di trasferimento di denaro e altre comunicazioni, ndr). Ma quella volta Hockney rispose: «Nulla di specifico, godetevi la vita!». È questa l’espressione che spesso usa per accomiatarsi, nelle sue comunicazioni via lettera o email: «Amate la vita. David».
Durante gli anni trascorsi a vivere e lavorare in un angolino tranquillo nel nord dell’Inghilterra, Hockney citava spesso un vecchio proverbio cinese: «Per dipingere servono tre cose: la mano, l’occhio e il cuore. Due non bastano».
Chiaramente Hockney possiede i primi due talenti. Se Picasso si vantava che già a dodici anni sapeva disegnare come Raffaello, Hockney non può fare esattamente la stessa affermazione, ma a vent’anni sapeva senz’altro disegnare come Picasso (e Ingres). Inoltre, proprio come Picasso, ha passato gran parte della vita a cercare nuovi e originali modi di disegnare.
La vista di Hockney è straordinariamente acuta. Qualche anno fa abbiamo discusso a lungo sugli individui che soffrono di prosopagnosia, un disturbo neurologico che impedisce di riconoscere i volti umani. Secondo Hackney, ci sono individui più o meno dotati in questo campo; ed è vero. Coloro che sanno individuare i più piccoli dettagli dei tratti somatici sono definiti «super fisionomisti». Più tardi ho scoperto che alcuni di loro vengono reclutati come investigatori da Scotland Yard. Quando gliel’ho fatto notare, Hockney mi ha risposto di essere «sicurissimo» che Rembrandt era uno di loro.
«Forse alcuni di questi detective potrebbero dedicarsi all’arte del ritratto, con risultati fenomenali. Ma non credo che ci sia mai stato un ritrattista all’altezza di Rembrandt, né prima né dopo di lui. La fotografia non ci arriva, non come Rembrandt».
Con l’ultima frase Hockney intende dire che un occhio acuto come quello di Rembrandt riesce a cogliere più sfumature di qualsiasi obbiettivo fotografico; e una mano abile come la sua può riprodurle. «Il soggetto più interessante per noi resta sempre l’essere umano, ed è pertanto il più difficile da disegnare», sostiene Hockney. «Tutti sanno disegnare un albero, perché non ci importa se un ramo è un po’ sbagliato, ma se un braccio è un po’ sbagliato, se ne accorgono tutti».
Hockney riesce a vedere molto di più in un volto, o in un albero, rispetto all’osservatore comune, e così pure in qualsiasi altro particolare sul quale concentra la sua attenzione. Quando abitava nell’East Yorkshire si mise a studiare i fiori e le piante che crescono lungo i margini della strada. E più li osservava, più i suoi disegni si arricchivano di dettagli, forme, colori, varietà botaniche.
Hockney li ha disegnati, dipinti e filmati con nove fotocamere (un’opera descritta da Norman Rosenthal, guest curator dell’esposizione di Parigi, come la versione contemporanea della Grande zolla, il celebre acquarello di Albrecht Dürer). Pertanto quei fiorellini e quei fili d’erba, ignorati dai più, si sono allargati fino a diventare un grande soggetto. Ma, soprattutto, oltre alla mano e all’occhio, Hockney crede nell’importanza del cuore. Infatti, si rammarica che «nessuno soffre più di mal d’amore, nessuno muore più di crepacuore. Tutto si riduce a una definizione clinica: è stato un infarto. Io non la vedo così. Un tizio alla radio diceva che il cuore è una semplice pompa. Non ci credo. Io invece penso che si possa parlare dal cuore. Ho notato che il cuore batte a velocità diverse a seconda di quanto accade nel mondo. Tutto quello che accade là fuori si ripercuote sul nostro cuore».
E il cuore lascia il segno sull’arte di Hockney. Una volta confessò: «Amo la vita, non sono tra quelli che la definiscono una tragedia. Ma la vita è anche tanto altro ancora». In molti suoi dipinti le sedie vuote rimandano alla solitudine, certamente, ma quando si osservano le sue opere, a prescindere da qualunque corrente sotterranea, si percepisce la gioia che l’artista prova nel fissare il suo soggetto, qualunque esso sia, l’alberello che cresce tra i campi della sua fattoria in Normandia o i primi germogli primaverili nello Yorkshire, o ancora il volto di un amico. Sta proprio qui, indubbiamente, il segreto della straordinaria popolarità globale della sua arte.
Tuttavia, sarebbe errato presumere che il grande fascino delle opere di Hockney nasconda una carenza di spessore. Al contrario, Hockney si appassiona all’evoluzione della sua stessa arte e – cosa assai insolita per un artista – è arrivato a proporre una sua versione alternativa della storia dell’arte. L’approccio di un artista attivo è diverso, ha fatto notare, da quello di uno studioso o di un critico d’arte. «La domanda che lo storico dell’arte non ha mai sollevato è come sono state realizzate le opere, mentre è la prima che viene in mente a un artista». Nel suo libro Il segreto svelato. Tecniche e capolavori dei maestri antichi (pubblicato in italia da Electa nel 2002, ndr), Hockney sostiene che gli artisti europei ricorrevano alle immagini prodotte dalla camera oscura, una tesi che abbiamo indagato in un libro scritto in collaborazione, Una storia delle immagini (Einaudi, 2017). Hockney è affascinato dalla fotocamera, che conosce a fondo, ma si interessa soprattutto alle imperfezioni e lacune dell’immagine che ne risulta, nel senso in cui la fotografia è un’immagine diversa da ciò che l’occhio umano sa cogliere. Perché l’essere umano, sostiene Hockney, vede emotivamente e psicologicamente. «L’occhio è collegato alla mente», e di conseguenza «noi vediamo con la memoria». I nostri occhi si muovono costantemente, mentre il cervello raccoglie immagini e compone un mosaico da tutti gli scorci che abbiamo captato da angolazioni diverse e in momenti leggermente diversi. Da questo concetto scaturiscono le opere realizzate da Hockney tra il 2011 e il 2012, dai filmati con nove fotocamere fino ai disegni digitali del 2017-2018 (creati a partire da centinaia di fotografie digitali).
Hockney sfrutta questa modalità d’impiego per ottenere un nuovo genere di immagine, che si differenzia dai risultati ottenuti con le fotocamere dei nostri smart-phone. Hockney li chiama «disegni», benché siano eseguiti non con penna, pennello o carboncino, bensì con un obbiettivo, un computer e uno schermo, in quanto il risultato è una rappresentazione bidimensionale del mondo intorno a noi, e racchiude in sé sia l’elemento spaziale che temporale. È, questa, solo una delle tante sfide che lo appassionano.
Paradossalmente, l’arte di Hockney è al contempo high-tech e low-tech. Si serve di tecniche talmente nuove da richiedere spesso l’aiuto di uno specialista. Ma subito dopo, potrebbe anche tornare agli strumenti più antichi maneggiati dall’homo sapiens. Tra i suoi massimi capolavori, una serie di paesaggi primaverili del 2013 realizzati con il carbone, un tizzone di legno bruciato, un materiale ben noto all’uomo preistorico delle caverne. Un altro paradosso: benché le sue opere siano vendute per decine di milioni di dollari, Hockney resta indifferente davanti a quei prezzi da capogiro che, anzi, spesso gli procurano un senso d’insofferenza. Ciò che conta per lui è la libertà di dipingere e disegnare. «Sarà stato nel 1963, quando mi sono accorto che potevo vivere del mio lavoro, con la vendita dei miei quadri, e mi sono detto: “Caspita David, allora sei ricco!”».