Tuttolibri, 5 aprile 2025
Dopo cento anni Jay Gatsby è diventato una persona reale
Esistono più di venti traduzioni del Grande Gatsby in lingua italiana. Se Cuore di tenebra di Joseph Conrad è il romanzo più analizzato nei college e nelle università – così sosteneva Harold Bloom –, Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald dev’essere uno dei romanzi più tradotti al mondo: di sicuro lo è stato nel nostro paese, nei cento anni trascorsi dalla sua prima edizione il 10 aprile 1925, per la Charles Scribner’s Sons.
Tra la prima traduzione che ho letto (Fernanda Pivano, Mondadori, 1950) e l’ultima alla quale mi sia davvero affezionata (Franca Cavagnoli, Feltrinelli, 2011), è successo qualcosa: a furia di ritrovarlo in ogni angolo della letteratura americana, Jay Gatsby è diventato una persona reale.
Ho rivisto quest’uomo dotato di una precipitazione romantica così avventata da risultare cringe malgrado i suoi sforzi in centinaia di personaggi di finzione che hanno cercato di essere alla sua altezza. Ho sentito il suo ascendente fraterno su Holden Caulfield nel romanzo di formazione di J.D. Salinger, ma anche nelle pagine finali di Sulla strada di Jack Kerouac, l’autofiction di riferimento della Beat Generation. L’infatuazione di Kerouac per la scrittura di Fitzgerald arrivò a fargli prendere decisioni che ora mi appaiono più chiare: quando si ritrovò a romanzare la sua amicizia picaresca con Neal Cassady trasformandolo in Dean Moriarty, lo fece come se Cassady fosse un Jay Gatsby arrivato con quasi trent’anni di ritardo. Un Gatsby più esplicito nel parlato e nei rapporti con il genere femminile, con l’epica vasta e inesausta di un’intera nazione; uno che ascoltava cool jazz invece di hot jazz. È questo il motivo per cui ho avuto la tentazione di tradurre il leggendario old sport usato da Gatsby per rivolgersi a conoscenti e amici con un benigno «compadre». Lo avrei fatto non solo perché Il grande Gatsby in fondo è un romanzo regionale, fatto di creature del Midwest che affollano le strade di New York (è lo stesso Nick Carraway a dirlo), giustificando così l’adozione di un termine vetusto e rinverdito soprattutto al Sud o nell’entroterra, ma pensando proprio alle pagine finali di Sulla strada, quando Kerouac nei panni di Sal Paradise parla di Moriarty definendolo «il padre che mai trovammo» (traduzione di Marisa Caramella, Mondadori, 2006). Jay Gatsby non è sufficientemente vecchio da rappresentare una figura paterna per Nick Carraway, che appartiene a una famiglia benestante radicata nel Midwest e coltiva fantasie aristocratiche, ma può trasmettere il calore di una saggezza spavalda e accidentale che alla fine si consolida in un carattere, in una figura pronta a dispensare consigli che nessuno avrebbe voglia di seguire, e però che bel suono che hanno. Se avessi scelto «compadre» per tradurre old sport, invece di attualizzare e modernizzarlo, lo avrei storicizzato approfittando della sua collisione con un altro testo del Novecento che probabilmente non sarebbe mai esistito senza l’ascendente esercitato da Fitzgerald. Ma a proposito di autofiction e di credere nelle persone vere: è risaputo che per modellare il personaggio di Gatsby, Fitzgerald si sia ispirato al suo vicino di casa a Long Island, il famigerato Max Gerlach, veterano di guerra, contrabbandiere, che spesso usava la locuzione old sport nelle sue lettere destinate allo scrittore. Dev’essere stato questo a determinare il mio istinto di tradurre old sport con «socio»: è così che immagino che un contrabbandiere enigmatico si sarebbe rivolto ai suoi interlocutori, nel bisogno a volte ironico e a volte affettuoso di instaurare un rapporto di stima con chi gli stava accanto, contaminandolo anche solo leggerissimamente con qualcosa di poco intelligibile e rivelato.
«Socio» è una parola che sento sempre più spesso per le strade di New York dove passeggiava Jay Gatsby, in bocca a uomini che come lui vorrebbero farcela, nella loro vita segnata da migrazioni piccole e grandi e da altrettanti naufragi: considerando come si è trasformato il panorama linguistico negli Stati Uniti rispetto al 1925, con infiniti scambi e acquisizioni dallo spagnolo, questo «socio» (che in spagnolo significa collega, complice, amico), per me inaugura uno spazio parallelo fatto di cameratismo virile che si risolve nella rassicurazione dell’amicizia. È una scelta di traduzione che sente la stretta del realismo della nuova vita americana rispetto al romanticismo di una reminiscenza letteraria. Un’attualizzazione, sotto le mentite spoglie di qualcosa di antico.
Difficile stabilire dove inizino e dove finiscano le finzioni che aleggiano attorno a Jay Gatsby. È come annuncia lo stesso Nick Carraway, il narratore maldestro che vi ha fatto compagnia durante la lettura: a un certo punto «il vago contorno di Jay Gatsby si era ormai riempito fino a diventare la sostanza di un uomo». Quali conseguenze ha questa percezione di verità, quando la capacità di stabilire dei confini tra la literary non fiction e il romanzo puro si affievolisce? La prima conseguenza è che il modo di leggere un classico e di fare delle scelte al riguardo cambia, perché nel frattempo sono cambiate le modalità di lettura. A cento anni dalla sua prima pubblicazione, Il grande Gatsby vive in un ecosistema letterario dominato dall’autofiction, dalla cronaca nera e dalla fame di realtà e così, nell’impossibilità quasi mistica di credere che Jay Gatsby non sia mai esistito, la prima variabile a mutare è quella del tempo.
La popolarità delle narrazioni ibride ha creato un condizionamento di cui ero ben consapevole quando ho intrapreso la traduzione del romanzo: se il modo in cui ci rapportiamo al tempo è diventato sempre meno elegante, forse l’eleganza riottosa di Francis Scott Fitzgerald andava cercata altrove.
Nick Carraway inizia a raccontare la storia del suo vicino di casa nel 1924, riferendosi ad avvenimenti accaduti nell’estate nel 1922, con occasionali flashback nel passato dei personaggi. Non è stata la relativa vicinanza tra gli eventi narrati a condizionare la mia scelta verso il passato prossimo: è stata piuttosto la consapevolezza che nel suo essere «un’anima letteraria», Nick Carraway si sta misurando con dei generi precisi: il diario, la biografia romanzata, l’autofiction. Nelle sue parole c’è persino un’anticipazione del new journalism degli anni Sessanta: Carraway parla come un vecchio per la sua epoca, ma anche come un cronista preoccupatissimo per i suoni e le forme del parlato desunto dalla strada e dalla vita mondana. Tutte forme e codici che oggi leggiamo quasi sempre al passato prossimo e che sono «veloci come crescono veloci le cose nei film»: un tempo verbale più plastico per raccontare lo stile di Fitzgerald che è ellittico e copioso; formalmente perfetto e istintivo. Arrugginito e cromato insieme, dove ogni giro di frase ricorda qualcosa di familiare e allo stesso tempo anticipa una visione.
Dal canto suo, Francis Scott Fitzgerald non ha mai dovuto combattere questa battaglia o ferirsi tra le lance acuminate delle varie tensioni temporali: in italiano il simple past può essere reso sia con il passato prossimo sia con il passato remoto. Sul piano sentimentale può riferirsi a qualcosa che in qualche modo continua ad accadere per le sue conseguenze ravvicinate sul presente e a qualcosa di sigillato e finito per sempre, archiviato in un momento inaccessibile della propria storia. La differenza tra queste prospettive non è mai stata così abissale come nel Grande Gatsby: è su questo che si gioca il romanzo.
È innegabile che per quanto plastico, o forse proprio perché è così plastico, il passato prossimo sia meno elegante e convenzionalmente letterario del suo presunto avversario e che lasci dei residui di lavorazione sulla pagina, creando ripetizioni e inciampi. Anche se puzza di scorciatoia verso le mode del presente o di antipatia per un tempo verbale codificato regionalmente, la mia scelta ha una natura disperatamente romantica: volendo così bene a Jay Gatsby, e ripensando alla scena del suo funerale, mi sono chiesta cosa si poteva fare per lui. Proprio come fa Nick Carraway. Ho voluto dargli un tempo meno bello, ma forse più vicino al suo sentimento; un tempo meno solenne e impositivo nella sua raffinatezza, ma audace, barbarico, sempre aperto e ancora vivo. Il passato remoto lo rende un aristocratico e un personaggio d’autore; il passato prossimo lo riconosce come un sognatore bastardo. Il primo asseconda le sue aspirazioni da uomo fatto; il secondo rispetta chi era davvero, e cioè un adolescente infatuato (che a tratti si infantilizza: quando in preda all’euforia per Daisy si arrampica in un posto segreto e immaginario sopra agli alberi, sta succhiando «la pappa» o «il capezzolo» della vita? Dipende da quanto riteniamo intransigente l’opinione dell’autore su di lui). Il passato remoto evoca genealogie e antenati: Gatsby non ne ha. O se li inventa o sono morti: come dimostrano Dean Moriarty, il Don Draper di Mad Men e persino Jay-Z, è lui il fondatore di una stirpe. È condannato a essere sempre nuovo, evocato da un sangue impossibile, proprio come i palazzi che intravede dal ponte nascono dall’ispirazione, da un denaro che non ha odore.
C’è dunque qualcosa di intimamente violento nel calare un passato irrecuperabile su un personaggio per il quale non finisce mai nulla. Un uomo dal cuore «fantasmato», perché è pieno di fantasmi ma è il cuore stesso ad assumere la consistenza di un fantasma: è così che leggo quel ghostly scelto da Fitzgerald in questa circostanza, differenziandolo da altre occorrenze. È vero che è Nick Carraway a raccontare questa storia, lui che è pronto ad affermare che il passato non può tornare, ma non possiamo immaginare che qualcosa del suo amico lo abbia contagiato nel profondo, tanto più mentre sta scrivendo un tributo su di lui e Gatsby gli torna «vivo davanti agli occhi»? Leggendo Il grande Gatsby non sappiamo ancora dov’è e cosa pensa Nick Carraway nel 1934 o 1954, e cosa ne sarà dei suoi ricordi di Jay Gatsby. Addentrandoci nel suo resoconto, riceviamo solo il suo senso acuto di giustizia e nostalgia, quando saluta la città prima di tornarsene nel Midwest. In tal senso anche il titolo di questo intervento è da intendersi come una forma di saluto, riprendendo un messaggio arrivato troppo tardi per cambiare il titolo del romanzo. Poco prima di andare in stampa, Scott Fitzgerald disse a un editor della casa editrice che andava pazzo per Under the red, white and blue, solo per sentirsi dire che non se ne poteva fare niente. Questa sì una decisione archiviata per sempre.
Ho iniziato a tradurre Il grande Gatsby nel febbraio del 2020 e ho rifinito il testo nel febbraio del 2025. All’epoca vivevo a New York: dopo la mia infanzia, la mia seconda vita americana era appena cominciata, e quanto era simbolico passare le mie giornate con The Great American Novel? Avevo trascritto un appunto sul mio taccuino di lavoro, la celebre frase in cui Cesare Pavese ammetteva di non volere tradurre Fitzgerald perché questo autore gli piaceva troppo. Pavese è stato l’autore del Novecento italiano con cui ho più desiderato avere un dialogo ravvicinato. Forse perché anche lui era un americano mancato: lui perché non era mai arrivato negli Stati Uniti malgrado i tentativi e le lettere, io perché mi avevano portato via quando non potevo farci niente, convincendomi però che non ci fosse nulla di irrevocabile in questo fatto di vita.
Crescendo, l’America è sempre stata una luce verde per me e ho vissuto e lavorato nel turbamento della sua luminosità. Come interpretare il destino allora, se proprio nel momento in cui ci sono tornata, il mondo intero è stato colpito da un virus e la storia mi è esplosa in faccia?
Persa ogni geografia, la malinconia di Nick Carraway è diventata la mia: lui scriveva i nomi di quelli che andavano alle feste nella villa di Gatsby, io il numero delle ambulanze che passavano sotto la finestra e il nome degli amici che chiamavano. La quarantena significava che non era successo mai niente prima di allora e forse non sarebbe successo più nulla; l’esatto contrario di quello che prometteva Daisy Buchanan ai suoi spasimanti, e cioè che aveva fatto «cose gioiose ed eccitanti fino a un attimo prima e che ci sarebbero state cose gioiose ed eccitanti subito dopo».
Il crack-up di Francis Scott Fitzgerald e della Generazione Perduta aveva assunto la forma di una pandemia; le feste clandestine non erano dovute al proibizionismo ma alla paura contraddetta dalla voglia di non morire. Durante l’ultima cena prima della quarantena, nel vecchio appartamento di Charles Mingus (a proposito di jazz e ironia), l’idea che la luce verde si fosse estinta per sempre mi ha riempita di uno struggimento che ha aleggiato a lungo nelle parole che di volta in volta ho scelto per questo testo.