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 2025  marzo 29 Sabato calendario

Nat King Cole unforgettable


Febbraio 1965, un mese cruciale per la storia della cultura afroamericana: James Brown, astro nascente della soul music, incide il brano Papa’s Got a Brand New Bag, destinato a un exploit internazionale; John Coltrane fa uscire l’album A Love Supreme, che quasi prelude alla svolta free del già innovativo sassofonista, diventando un lp iconico per le successive generazioni; Malcolm X, il 21 febbraio, viene ucciso per una faida interna fra i Black Muslim, i quali gli rimproverano la nuova linea conciliante, rispetto alla dura intransigenza prima del suo viaggio alla Mecca; solo la settimana precedente a Santa Monica (California), il 7 febbraio, muore, per malattia, a soli 45 anni, Nathaniel Adams Coles, per tutti Nat King Cole, nato a Montgomery (Alabama) il 17 marzo 1919.
Sono quattro eventi diversissimi ma che confermano le fondamentali trasformazioni all’interno (e all’esterno) della black culture: un inasprimento delle nuove sonorità, affiancate dalla lotta per i diritti civili, ripartita, nel dopo Malcolm X, tra il pacifismo del reverendo Martin Luther King e la politica radicalissima, in chiave marxista-leninista, di organizzazioni come il Black Panther Party. Per contro, è anche l’epilogo di un suono – quello di Nat – che, sia pur discusso da frange intransigenti (e talvolta da puristi ottusi), non troverà veri continuatori.
La musica di Cole, la grande voce di classici come Unforgettable o Nature Boy, è infatti un unicum nelle arti americane legate al jazz, al pop, al pianoforte, alla vocalità, ai mass media.
UNA NUOVA FORMULA
La storia musicale del «King» è nota pure in Italia: pianista jazz di ottimo livello, si trova fin da giovane a inventare una formula concertistica che lo traghetta verso la notorietà; con Irving Ashby (quindi Oscar Moore, chitarra) e Wesley Price (poi Johnny Miller, contrabbasso) fonda infatti il Nat King Cole Trio nel 1939 a Los Angeles offrendo per primo quello che decenni più tardi verrà chiamato «jazz cameristico»: atmosfere soffuse, dinamiche eleganti, songbook rilassato, lavoro coeso addirittura in anticipo sull’interplay alla Bill Evans, per quanto Cole, pur suonando in jam session con tanti modernisti, non interiorizzi mai appieno le spigolosità del bebop, restando forse entro i limiti di uno swing aggiornato, un po’ come accade, in parallelo a Duke Ellington con la propria big band: non a caso entrambi profondi conoscitori delle tradizioni (ma anche delle novità) musicali afroamericane.
Poi di colpo, la «metamorfosi» da pianista a cantante. La vulgata dice che una sera, al night dove si esibisce, un avventore ubriaco gli chieda insistentemente di cantare una canzone e che, suo malgrado, Nat offra un saggio straordinario di vocalità originalissima. Ciò che risulta stupefacente è proprio il timbro, così lontano da quello rugoso di Louis Armstrong o Ray Charles, accostabile invece allo stile crooner bianco di Frank Sinatra, Bing Crosby, Dean Martin e del più jazzy Mel Tormé.
In poco tempo Nat diventa una star internazionale, applaudita in tutto il mondo, a partire dai bianchi americani per approdare, oltre i paesi anglofoni, in Italia, Francia, Germania, Giappone, America latina, dove canta e registra vinili negli idiomi locali, pur senza conoscere i contenuti delle lingue, ma assimilando perfettamente il sistema fonetico e la sillabazione tradotta quindi in note musicali.
Il «Re» diventa anche il primo nero del divismo televisivo, oltre a piazzare 27 brani nella Top 40 dei singoli Usa e vendere milioni di album in tutto il mondo.
Ma tutto ciò non piace a certi americani che danno purtroppo vita a una storia assurda, questa poco nota da noi, che merita di essere raccontata a 60 anni da quel febbraio 1965 che riesce, in parte, a cambiare il mondo afroamericano.
AGOSTO ’48
Occorre quindi tornare indietro, all’agosto 1948, quando Cole acquista una villa dal colonnello Harry Gantz – ex marito della diva del muto Lois Weber – nel quartiere bianco di Hancock Park a Los Angeles. Pochi giorni dopo, una croce infuocata viene posta sul prato davanti alla casa in modo che l’associazione dei proprietari immobiliari possa dire al cantante che non vogliono che nessun «indesiderabile» si trasferisca in quella zona. Da parte sua Nat replica: «Nemmeno io. E se vedo qualcuno indesiderato entrare qui, sarò il primo a lamentarmi».
Nel 1956 Cole viene incaricato di esibirsi a Cuba, allora definita il «bordello d’America» per via del governo corrotto del reazionario Fulgenzio Batista (due anni dopo spazzato via dai barbudos di Fidel e Raul Castro, Che Guevara, Camillo Cienfuegos).
Il vocalist vuole alloggiare all’Hotel Nacional de Cuba dell’Avana ma gli viene rifiutato, perché andrà a esibirsi in un cosiddetto «color bar» (esercizio gestito da neri e creoli). Costretto a riposare in un alberghetto, Cole onora comunque il contratto stipulato in precedenza con un recital al Tropicana Club che resta negli annali come un enorme successo; l’anno successivo tornerà sull’isola per un secondo concerto, interpretando molte canzoni in lingua spagnola.
Qualche mese prima dell’evento, Cole viene aggredito durante il concerto del 10 aprile 1956 all’auditorium municipale di Birmingham (Alabama), mentre sul palco con la bianca Ted Heath Band intona il brano Little Girl; la violenza avviene dopo che vengono distribuite fotografie del cantante assieme a giovani fan bianche: le immagini recano didascalie incendiarie con evidenziate in grassetto frasi quali «Cole e le sue donne bianche» e «Cole e tua figlia»; quindi tre uomini appartenenti al North Alabama Citizens Council attaccano Nat nell’apparente tentativo di un rapimento; si tratta di un gruppo affiliato al Ku Klux Klan che nutre un esasperato disprezzo per la black music, in particolare per il jazz, il blues e il rock’n’roll, svolgendo una rissosa campagna «pubblicitaria» per il boicottaggio dei cantanti neri e per la rimozione dei dischi rock dai juke box locali; un cartello fuori dalla propria sede avverte: «Il bebop promuove il comunismo».
L’AGGRESSIONE
Dunque gli aggressori corrono lungo i corridoi dell’auditorium dirigendosi verso Cole. Le forze dell’ordine locali pongono rapidamente fine all’intrusione, ma non abbastanza per evitare al jazzman la caduta dallo sgabello del pianoforte e un leggero infortunio alla schiena che non gli consente di terminare lo show.
La polizia ritrova fucili, manganelli, tirapugni in un’auto fuori dal locale e un quarto membro del gruppo viene successivamente arrestato, mentre tutti sono poi processati per direttissima e condannati anche se in maniera discutibile. Sei uomini (su sette), tra cui il 23enne Willie Richard Vinson, vengono formalmente incolpati di aggressione con l’intento di uccidere Cole (e di sopraffare l’orchestra e la polizia), ma le accuse contro quattro di loro sono successivamente modificate in cospirazione per commettere un reato minore, benché il piano originale per attaccarlo preveda 150 uomini provenienti sia da Birmingham sia dalle città limitrofe. Il 18 aprile, quattro dei razzisti vengono condannati a 180 giorni di carcere e una multa di 100 dollari, il massimo per l’accusa di aggressione, e altri tre sono multati per cospirazione e detenzione di armi illecite.
Sull’accaduto Nat si limita a dichiarare: «Non riesco a capirlo. Non ho preso parte ad alcuna protesta. Né ho aderito a organizzazioni che combattono la segregazione. Perché dovrebbero attaccarmi?».
Cole vuole dimenticare l’incidente al più presto, ma continua a lavorare negli stati del profondo Sud per un pubblico segregato, sostenendo che da solo non può certo rivoluzionare la situazione in un giorno. Tuttavia contribuirà con donazioni in denaro al boicottaggio dei lavoratori neri della propria città natale (la citata Montgomery), i quali, in segno di protesta per non potersi sedere nelle prime file degli autobus, reagiscono andando a piedi, onde impoverire le casse delle linee dei trasporti pubblici (gestiti da una giunta comunale razzista); in precedenza Nat cita in giudizio gli hotel del Nord del paese che, pur assumendolo come musicista, si rifiutano di servirlo a tavola nella sala da pranzo, vietata, agli afroamericani, dai responsabili dei locali.
I DUBBI
A livello mediatico l’atteggiamento di Cole fa il giro degli States, suscitando dubbi e perplessità fra gli afroamericani politicamente impegnati, in un momento di forti tensioni civili dove anche i musicisti neri – con rare eccezioni come Ray Charles, poi ravvedutosi – offrono il loro contribuito, anche molto prima che il free e il soul dei Sixties affianchino il movimentismo radicale black: dal 1955 al 1959, ad esempio, Sonny Rollins e Max Roach incidono rispettivamente Freedom Suite e We Insist! Freedom Now Suite, Charles Mingus compone Original Faubus Fables contro un governatore reazionario, persino Louis Armstrong disdice una tournée in Unione Sovietica del Dipartimento americano quando legge sul giornale che un senatore sputa addosso a una bimba nera, «rea» di voler frequentare a scuola una classe mista. Per Thurgood Marshall, allora capo consulente legale della NAACP (National Association for the Advancement of Colored People), dice arrabbiato: «Tutto ciò di cui Nat King Cole ha bisogno per completare il suo ruolo di zio Tom è un banjo», alludendo al protagonista arrendevole (l’anziano nero sottomesso) del romanzo di Harriet Beecher Stowe, che, in cattività, per passatempo, strimpella uno dei pochi strumenti che gli schiavisti tollerano dai propri subalterni.
Anche Roy Wilkins, segretario esecutivo della NAACP, scrive inviperito un telegramma a Nat: «Non sei stato un crociato o non sei stato impegnato in uno sforzo per cambiare i costumi o le leggi del Sud. Quella responsabilità, citano i giornali, la lasci agli altri ragazzi. Questo attacco contro di te indica chiaramente che il fanatismo organizzato non fa alcuna distinzione tra coloro che non sfidano attivamente la discriminazione razziale e coloro che lo fanno. Questa è una lotta alla quale nessuno di noi può sfuggire. Ti invitiamo a unirti a noi in una crociata contro il razzismo».
Cole è titubante, ma lo è sempre meno quando alcune testate progressiste rincarano la dose: ad esempio il Chicago Defender afferma che le esibizioni di Cole per un pubblico di soli bianchi risultano «un insulto alla sua razza».
Il New York Amsterdam News sostiene che «migliaia di neri di Harlem che hanno adorato come una reliquia il cantante Nat King Cole, gli hanno voltato le spalle questa settimana, mentre il noto crooner a sua volta ha voltato le spalle alla NAACP e ha detto che continuerà a suonare per il pubblico delle leggi di Jim Crow». Su The American Negro si arriva persino a scrivere: «Suonare i dischi dello ‘Zio Nat’, significherebbe sostenere le sue idee di ‘traditore’ e il suo modo di pensare ristretto». Profondamente ferito dalle critiche sulla stampa nera, Cole però trasforma ben presto la propria amarezza in un atteggiamento risoluto e costruttivo, sottolineando nelle parole e nei fatti una netta opposizione alla segregazione razziale «in qualsiasi forma», accettando l’invito dei colleghi a unirsi a loro in una campagna di boicottaggio dei luoghi segregati. Nat paga quindi ben 500 dollari dell’epoca (3500 è il costo della splendida Cadillac Coupe de Ville) per diventare un membro a vita della filiale di Detroit della NAACP e sino alla morte partecipa attivamente e in modo visibile al movimento per i diritti civili, svolgendo un ruolo importante nella pianificazione della marcia su Washington del 1963 di Martin Luther King a fianco di musicisti neri (Odetta, Nina Simone, Harry Belafonte) e bianchi (Bob Dylan, Joan Baez, Pete Seeger).
VERSO LA FINE
Insomma nel giro di pochissimi anni Nat passa dalla celebrazione televisiva del compleanno del presidente Dwight D. Eisenhower (1956) e relativa convention nazionale Repubblicana dove, ricevuto tra molti applausi, canta That’s All There Is to That a presenziare quella democratica (1960) per sostenere il senatore John F. Kennedy, risultando poi uno degli intrattenitori reclutati da Frank Sinatra per esibirsi al gala inaugurale (1961) del nuovo giovane presidente, il quale, lo vuole – come del resto il successore, Lyndon B. Johnson – quale consulente per i diritti civili.
E quasi a ribadire la fierezza etnica identitaria e ad avvalorare l’engagement nei confronti della propria gente, Cole pubblica, nell’ultima parte della propria vita, alcuni eccellenti dischi, proprio sotto il profilo dell’afroamericanismo, pur continuando a sfornare brani pop, come ad esempio nell’ultimissimo – prima dell’abbondante discografia postuma – L-O-V-E (Capitol Records), album inciso dal primo al quattro dicembre 1964 e uscito a fine gennaio 1965, contenente struggenti versioni di The Girl from IpanemaMy Kind of Girl e More (il tema del film Mondo Cane): la rivista Billboard all’epoca sostiene che si tratti di «uno dei migliori album di Nat Cole fino ad oggi! È in gran forma mentre infonde nuova vita a del buon materiale standard… La melodia del titolo è un classico di Cole!».
E da quel 7 febbraio fino a inizio 2025, tranne per la seconda metà degli Eighties non passa anno senza nuovi dischi di Nat King Cole, si tratti di ristampe, antologie, inediti, edizioni deluxe, fino a giungere, stando alle stime ufficiali, alla bellezza di 79 titoli, così come non si contano i tributi e gli omaggi di altri musicisti.
Ma sotto quest’ultimo aspetto basta segnalare cinque splendidi titoli che appartengono ad altrettante grandiose personalità del sound afroamericano, a cominciare dal soulman Marvin Gaye che già nello stesso anno esce con il suo sesto album semplicemente chiamato A Tribute to the Great Nat «King» Cole (Tamla Motown), in cui omaggia il suo grande idolo, riseguendone i classici.
Ma occorrerà aspettare circa un quarto di secolo per trovare la figlia Natalie Cole, già stella del funk e della disco music, accostarsi quasi filologicamente al gusto swing paterno con Unforgettable… with Love (Elektra, 1991), reso celebre dal duetto virtuale, che offusca mediaticamente l’oggettiva bellezza dei restanti brani. Ancora un altro quarto di secolo e poi è la volta di due «anziani» e un «giovane» che a distanza fra loro ravvicinata omaggiano soprattutto il cantante: il chitarrista George Benson con Inspiration (Concord Jazz, 2013), il fratello Freddy Cole in He Was the King (HighNote, 2016), con cui sembra concludere una lunga carriera nel canto jazz, e Gregory Porter con Nat King Cole & Me (2017) in grado di lavorare sulla dialettica passato/presente senza imitare l’irraggiungibile modello.
FUORI I DISCHI
The King Cole Trio, Volumes 1-4 (Capitol, 1945-1949)
Penthouse Serenade (Capitol, 1952 e 1955)
The Piano Style of Nat King Cole (Capitol, 1956)
Love Is the Thing (Capitol, 1957)
Cole Español (Capitol, 1958)
St. Louis Blues (Capitol, 1958)
Welcome to the Club (Capitol, 1959)
The Magic of Christmas (Capitol, 1960 e 1963)
The Nat King Cole Story (Capitol, 1961)
Nat King Cole Sings/George Shearing Plays (Capitol, 1962)
Ramblin’ Rose (Capitol, 1962)
Nat King Cole Sings My Fair Lady (Capitol, 1963)
Nat King Cole at the Sands (Capitol, 1966, live, postumo)