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 2025  marzo 29 Sabato calendario

Cronache dall’ultimo miglio "dove la vita è caparbia e la fatica porta felicità"

L’ultimo miglio è quello «dove si fatica di più, dove arrivano meno risorse, dove l’interesse dei governi langue e quello dei mezzi di comunicazione sfarina: perché restare, perché andarsene, quali compromessi si è disposti ad accettare». L’ultimo miglio porta in un posto dove non c’è l’acqua e, quando manca il gasolio per il generatore, nemmeno la luce, lontano dalle miniere di diamanti e dal petrolio, dai grattacieli della capitale. L’ultimo miglio porta a Chiulo, provincia del Cunene, estremo sud dell’Angola. Fabio Geda, la cui scrittura, che siano romanzi o saggi, si nutre da sempre di uno sguardo bene aperto sul mondo, ha scelto questo posto (che «per dirla con lo scrittore portoghese Lobo Antunes, che è stato medico militare in Angola e ha intitolato così uno dei suoi libri, è davvero “in culo al mondo”, anche per gli angolani, che infatti non ci vogliono venire») per raccontare l’impegno di Medici con l’Africa Cuamm. Attivi in nove Paesi sub-sahariani, qui gestiscono un ospedale conquistandosi la fiducia di chi si affiderebbe a un guaritore in cambio di una gallina. Oltre a tutto il resto, la malnutrizione e l’Aids, assistono le donne nell’ultimo mese della gravidanza. Ragazze e donne di villaggi sperduti che non arriverebbero in tempo in caso di un’urgenza, di rischio di morte, e che così abitano, tutte insieme, La casa dell’attesa, che al libro di Geda ha dato il titolo.
L’Angola, il colonialismo, il brulicare dell’Avenida 21 de Janeiro, i volontari giovanissimi, i medici che rischiano la vita e spesso la perdono, la prostituta che muore con indosso il suo primo vestito elegante. Possiamo usare le parole di Quim, il responsabile locale del Cuamm, che si è salvato da guerra e mine, e dire che in ogni pagina “c’è un’altra storia. Una storia grossa”?
«Mentre scrivevo mi sono reso conto che è un libro “specchiato” rispetto a Nel mare ci sono i coccodrilli. All’epoca di fronte alla cronaca sui giornali o in televisione di masse di migranti indistinte, di tante vite, ma tutte confuse, avevo pensato di prenderne una, quella di Enaiatollah Akbari, per raccontarle tutte. Qui c’è stato quasi il bisogno di fare l’opposto per rendere l’incredibile complessità e varietà di esperienze, così simili e così diverse fra loro, che si incontrano quando fai cooperazione».
L’autore-narratore è quasi un protagonista, come mai?
«Non l’avevo mai fatto di mettermi così dentro ad una storia, però questo è un reportage, non è un romanzo. Volevo che avesse un tono letterario, ma contemporaneamente riflettesse un’esperienza molto intima. Non ero mai stato in Africa sub-sahariana e in contesti sanitari simili. Sono un educatore, abituato ad avere a che fare con la povertà sociale, culturale, con giovani che vivono contesti disagiati o complessi, ma la quantità di ragazzini di strada che ho trovato lì, e che venivano a parlare con me, mi ha sorpreso. Cito a un certo punto il poeta e attivista Danilo Dolci, quando dice che “se l’occhio non si esercita, non vede; e se la pelle non tocca, non sa”. Quindi sì, ci sono anch’io».
È un reportage che vive di letteratura a cominciare da Agostinho Neto: è lui il ponte per provare a conoscere e capire?
«È stato fondamentale per creare un filo di continuità tra la politica, il Cuamm e me. È il primo presidente, il padre della patria, ed è medico, esattamente come tutti quelli che ho incontrato, con passione e disponibilità assolute. Al punto che per Neto fare il medico diventa anche un gesto politico. In esilio a Capo Verde lo fa talmente bene da indispettire il regime salazarista, che prima lo sposta di isola e poi, alla prima occasione, lo rimette in carcere. Ed è un poeta, usa le parole per raccontare, per “evadere"».
E ci sono i libri portati nello zaino. Come mai Calvino?«Leggere è un buon modo per tradurre ciò che vedo, ho cercato di trovare delle connessioni un po’ oblique. A Luanda ho subito pensato che, a partire dal nome femminile, fosse una perfetta “città invisibile”, una megalopoli di dodici, tredici milioni di persone che la maggior parte di noi non conosce. Attraverso Ondjaki, che è un autore angolano, ho invece cominciato a percepire quel mondo attraverso la letteratura. E Kapu?ci?ski, che era stato lì dopo l’ indipendenza del ’75, mentre i portoghesi scappavano e cominciava la guerra civile. Quando mi emoziono con le parole degli altri, mi chiedo come posso far provare la stessa sensazione a chi mi legge».
"Casa de Espera”, l’attesa che incontra la speranza. È questa la suggestione che ha guidato la scelta?
«Mi è sembrato da subito un luogo felice, pieno di fiducia, di sguardo rivolto al futuro. Cerco sempre di sfuggire al voyeurismo del dolore e alla speranza do un valore attivo. È diversa dall’ottimismo di chi dice “andrà tutto bene”. La speranza vuol dire che, mentre fatichi e pensi che tutto potrebbe finire male, trovi ancora un buon motivo per lottare. Tutte quelle donne in attesa di partorire, il senso di speranza attiva, sono metafora del lavoro di chi fa cooperazione, della vita caparbia. Ecco, io penso che questo alla fine sia un libro sulla caparbietà e sulla perseveranza».
A proposito di dolore, racconta che quello fisico implode, quello emotivo esplode.
«Mi ha molto impressionato. Soprattutto per le donne tutto è faticoso, da quando si alzano a quando vanno a dormire. E loro hanno questa capacità pazzesca di contenere il dolore fisico. Poi però, quando il dolore diventa emotivo, lo esprimono attraverso tutta la comunità, che si ferma, esplode nei canti, si interroga con riti collettivi. Senza generalizzare, mi pare che noi ci lamentiamo di un ginocchio che fa male o della cervicale, poi se abbiamo dei dolori emotivi facciamo meno comunità, o solo con gli amici più intimi, però magari andiamo in terapia da uno sconosciuto».
Le politiche di Trump hanno colpito, con il blocco dei fondi Usaid, la cooperazione internazionale e i progetti sanitari in Africa. Che si fa?
«Questa storia mi pare arrivi nel momento giusto. Per il cinismo imperante in cui siamo immersi, il buonismo è stato sostituito dal “cattivismo" e la cooperazione è davvero sotto attacco: quando ci si accorge che magari alcuni soggetti non operano nel modo migliore, allora ecco che tutta è marcia. Ma è importante individuare chi la fa bene e, quando ci lasciamo andare al gioco dell’indignazione quotidiana, ricordare che invece di sfogarla sui social network possiamo sostenere chi, davvero da tanto tempo e con caparbietà, lavora per immaginare un mondo migliore».