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 2025  marzo 29 Sabato calendario

Intervista a Gabriele Lavia

Gabriele Lavia ci racconta la sua vita “ingabbiata” in teatro alla ricerca costante del “trono della dea: il tea tron”. Perché il teatro non è certo solo l’aprirsi e il chiudersi di un sipario ma la cosa più importante inventata dall’uomo. È l’apparizione di una dea: «l’aletheia degli antichi greci che i romani hanno tradotto in maniera greve con veritas ma in realtà è la svelatezza». Laddove si svela quel mistero sul palco, c’è il teatro.
Tra i maggiori protagonisti della scena contemporanea italiana, considerato uno dei più grandi attori viventi, Lavia, a 82 anni, è tornato a portare la sua maestria in uno dei luoghi per lui d’elezione e di formazione: il Piccolo Teatro di Milano, fondato da Giorgio Streheler che è stato uno dei suoi due maestri. Fino a domenica 30 sarà in scena con il capolavoro del drammaturgo statunitense Eugene O’Neill, Lungo viaggio verso la notte nel quale Lavia (che è anche regista dello spettacolo) recita a fianco alla moglie Federica Di Martino.
La storia racconta di una famiglia che oggi definiremmo disfunzionale, totalmente vittima della grave tossicodipendenza della moglie del protagonista. Un’opera che per O’Neill fu drammaticamente autobiografica al punto che, racconta Lavia a Libero «l’autore stesso dopo tante revisioni non avrebbe voluto che venisse recitata perché probabilmente parlava di cose troppo personali. Per cui, diciamo la verità, ogni volta che lo mettiamo in scena facciamo un piccolo dispetto a O’Neill» scherza un po’ su Lavia che, tuttavia, nel corso dell’intervista, usando sempre la metafora del teatro, ci regalerà una analisi lucidissima, ma anche a tratti spietata sul mondo di oggi.
Maestro, oltre al fatto che sua moglie in scena è anche la sua vera consorte nella vita reale, c’è qualche altro elemento che la accomuna al dramma di O’Neill? 
«Fortunatamente non ho una moglie tossicodipendente! (Sorride) Tutta la famiglia Tyrone è travolta da questa tossicodipendenza che ha radici profonde dentro la vita di questa donna e poco alla volta, durante l’intreccio, con una grande abilità drammaturgica, l’autore ci racconta cos’era lei quando ha incontrato il marito. Un povero attore che diventa, a suo modo, colpevole senza colpa. Tutto si svolge in questo salotto, tinello di casa…».
Che avete trasformato in una vera e propria gabbia, pieno di inferriate. Perché?
«Tutti nelle nostre vite ci costruiamo delle gabbie. Anche senza accorgercene. Lei per esempio ora è costretto a farmi questa intervista che poi dovrà scrivere…».
In realtà è un piacere e un onore. Ma senta, lei invece si è mai trovato intrappolato in un ruolo o in un personaggio?
«Sempre! Sono intrappolato da sempre nel teatro, non nei personaggi. I personaggi al massimo sono delle condanne. Da interpretare senza riuscire a farlo. Ci provi la prima volta e non sei soddisfatto. La sera dopo cerchi di riuscirci e non ci riesci ancora. Alla terza replica cerchi di farlo un po’ meglio ma ti accorgi che non viene. Arrivi all’ultima data, vorresti che almeno quella venisse meglio ma la verità è che dal teatro non si esce mai soddisfatti e stare in scena non è altro che una frustrazione da un certo punto di vista. È troppo difficile recitare».
Le sue compagne di vita sono state sempre attrici: Annarita Bartolomei, Monica Guerritore e ora Federica Di Martino. Casualità o una sorta di predilezione di casta?
«Io faccio questo lavoro per cui conosco solo attori e attrici. Poi conosco scenografi, costumisti, costumiste. Conosco musicisti, elettricisti, macchinisti, fonici. Però continuo a preferire le attrici agli attori. Sono fatto così (Ride). Come dicono in Sicilia. C’è a cu ci piaci e a cu non ci piaci, a mia mi piaci…» (Sorride).
Recitare insieme alla propria partner, secondo lei, rafforza la coppia o potrebbe metterla a rischio?
«Non lo so. Sono vecchio. Non credo crei problemi. A me non ne crea. Recitare d’altra parte è così difficile che non ho tempo di pensare che sono anche un marito. È molto più facile essere un marito o una moglie che fare un personaggio. Bisogna fare i conti con quella bestia maledetta che è il teatro, con gli spettatori che sono uno diverso dall’altro. Il pubblico è un animale con molte teste da tenere a bada. Avesse una testa sola sarebbe tutto molto più semplice. Solo Putin sa perfettamente che alla fine gli arriva l’applauso. Il teatro, invece, è assoluta democrazia e speriamo che resti così perché a volte diventa anche anarchia…»
Quand’è che il pubblico diventa anarchico?
«Quando si fanno spettacoli per gli studenti. Non c’è niente di peggio degli spettacoli per le scuole. Io non ne faccio più ma c’è stato un periodo in cui mi è toccato di farli, di attraversare questo calvario. È una cosa orribile. Non si insegna ad andare a teatro portando una scolaresca a teatro. Come può venire in mente una così grande sciocchezza? Gli studenti vanno a teatro solo per non andare a scuola e gli attori sono costretti a fare i matinée quando in realtà non potrebbero recitare perché sono andati a letto magari alle 2. Non lo dico perché odio i ragazzi ma perché penso sia un male per loro. Ma come si fa a farlo capire alle scuole?».
Anche i suoi figli sono rimasti nel mondo del teatro o dello spettacolo. È stata una scelta più comoda o più scomoda per loro?
«Non lo so. Bisognerebbe chiederlo a loro. Io non li ho certo spinti né consigliati, anzi li ho sconsigliati. Ognuno poi ha scelto per i fatti propri».
Al Piccolo Teatro sicuramente il suo pensiero andrà al Maestro Strehler. Che ricordi ha di lui?
«Col Maestro Strehler ho avuto un rapporto veramente molto particolare. Di affetto, stima. Io posso dire che Strehler è stata una delle persone più importanti che io abbia conosciuto nella mia vita. Mi ha formato in maniera intellettuale e pratica perché ho fatto con lui uno spettacolo mitico come il Re Lear. L’altro è Orazio Costa che è stato mio insegnante in accademia e mi ha dato un altro tipo di formazione. Io devo tutto a questi signori. Orazio mi diceva: “Caro, purtroppo per te, tu farai il regista”. Strehler mi diceva: “Ahi ahi ahi... Vedo sul tuo capo la nuvola nera della regia…”. Nonostante io provassi a negare, mi dicevano entrambi la stessa cosa».
Che ricordi ha, invece, di Profondo rosso film che ha appena compiuto 50 anni?
«Dario Argento è stato sempre un amico, una persona molto gentile, molto dolce, mite. Completamente diverso dai film che faceva. Quel film me lo ricordo perché contemporaneamente la mattina facevo uno sceneggiato per la televisione vicino Milano e di notte, a Torino, giravamo Profondo Rosso con gli orari del cinema che sono sempre mattutinissimi, come quelli della televisione. Per cui fu veramente un delirio. Così telefonai al mio medico che mi diede delle pasticche con la raccomandazione di prenderle solo per una settimana e poi buttarle via… Ho questo ricordo particolare: stavo in palla». (Ride).
Senta, tornando al presente. Prima ha citato Putin. Cosa pensa del ruolo e del futuro dell’Unione Europea? Il mondo della cultura si è schierato sotto il vessillo Ue. Lei cosa ne pensa?
«Io trovo che l’Europa sia ineludibile. Anche se qualcuno non vuole, la Storia ci porta in quella direzione. Fortunatamente! La strada è lunga. Ci sono troppi interessi, egoismi ma la strada è quella. Non c’è la possibilità di tornare indietro. L’uomo è un essere con gli altri. Per difetto o per necessità. Gli Stati Uniti d’Europa già ci sono. Non sono effettivi ma ci sono già. Come dice il Vangelo di Giovanni: un principio, una parola. L’Europa unita è un concetto che c’è. Il resto è solo questione di tempo».
E dopo questo Lungo viaggio verso la notte, maestro, quale sarà la nuova alba per lei?
«Io sono molto vecchio. Non ho più albe ma tramonti. Ho l’arché della fine».