il manifesto, 22 marzo 2025
In Giappone, panorami alternativi alla realtà quotidiana
Sono le sette e cinquanta di lunedì 20 marzo 1995. A una stazione della linea Chiyoda della metropolitana entra Hayashi Ikuo. Hayashi è un medico di mezza età, alla fermata è stato accompagnato in macchina da Niimi Tonomitsu. In mano porta un pacco avvolto dalle pagine di Akahata, il quotidiano del partito comunista giapponese. Hayashi sale sulla carrozza di testa del treno che è partito alle sette e quarantotto da Kitasenju in direzione Yoyogi-Uehara. Arrivato alla fermata Shin-Ochanomizu, fa un buco con la punta dell’ombrello nella sacca di plastica che porta con sé avvoltolata nel giornale, la lascia a terra nel vagone e scende. Fuori dalla stazione trova Niimi, che lo fa salire in macchina e lo riaccompagna a Shibuya.
HAYASHI E NIIMI sono affiliati alla setta Aum Shinrinkyo del «guru» Asahara Shoko, Hayashi lavora come medico nel «ministero della scienza e della tecnologia» del culto. Quella mattina di marzo, come compito affidatogli dal guru in persona, diffonde del gas sarin nell’affollata metropolitana di Tokyo, proprio nell’ora di punta. Come lui, altri accoliti della Aum libereranno il sarin in contemporanea sulle linee Marunouchi e Hibiya, tra le sette e cinquanta e le otto e dieci. Moriranno quattordici persone e ne verranno intossicate seimiladuecento, molte in modo grave.
Sembrerebbe un esempio inconsequenziale, ma la setta Aum Shinrinkyo risponde, secondo Hiroki Azuma nel suo Otaku. La cultura che ci ha trasformato in animali accumuladati (traduzione di Lydia Origlia, a cura di Marco Pellitteri, Nero editions, pp. 205, euro 20), alla necessità nella società giapponese di trovare narrazioni finzionali che sostituiscano le ideologie politiche considerate ormai superate al volgere del millennio. La setta Aum ha costruito una dottrina «fondata su elementi immaginari provenienti dalle risorse creative di una subcultura per giungere infine a un’azione terroristica». Un po’ come è avvenuto in Occidente, dove nello stesso periodo i giocatori di ruolo venivano equiparati alle sette sataniche in una criminalizzazione generalizzata, anche in Giappone manipoli di fan e consumatori si chiudono in gruppi autoreferenziali producendo una cultura di fandom pressoché impermeabile alla realtà. È proprio dal successo di queste narrazioni finzionali – una vera e propria rivincita dei nerd – che trae spunto Otaku, specie nel loro legarsi al fenomeno della digitalizzazione che ne preserva e diffonde i contenuti. Nello sfaldamento delle grandi narrazioni, gli otaku si concentrano sui dettagli, per quanto microscopici, delle finzioni di cui sono consumatori.
FUMETTI, CARTONI ANIMATI, videogiochi: tutti concorrono a un panorama culturale alternativo alla realtà quotidiana fatto di personaggi, ambientazioni, accessori. Un esempio ne è il fortunatissimo anime Evangelion di Hideaki Anno. Una moltitudine di lettori e fruitori ne estrapolano elementi singoli dal contesto più generale della storia, come succede a Rei, una delle protagoniste che diventa feticcio a sé in giochi da tavolo, illustrazioni erotiche, cosplay, videogiochi. Rappresenta dunque, per Azuma, un «simulacro», un mero dettaglio finzionale privo della capacità di ricondurre a un racconto complessivo, una figurina nell’immane corpus di altre figurine che compongono l’archivio di dati (anch’essi simulacri), totalmente svincolata dall’opera originaria.
Anche grazie alla cultura otaku, fatta di comunità creative indipendenti, il Giappone diventa il paese postmoderno per eccellenza. Il termine viene per la prima volta adoperato in questo senso da un giornalista, Akio, Nakamori, per definire il consesso di fruitori della rivista amatoriale per adulti da lui stesso fondata. Queste molteplici micronarrazioni perlopiù autoreferenziali e spesso avanguardistiche nei loro linguaggi, oggi, possono usufruire di database comuni grazie al processo globale di virtualizzazione dell’esperienza umana. Se poi ci si riferisce al Giappone in particolare, Azuma nota che un simile successo anche all’estero della cultura otaku è dovuto non solo al consumismo come unico orizzonte a disposizione, ma anche e soprattutto allo snobismo altamente estetizzato legato al mondo nipponico, figlio di un essenzialismo e di un orientalismo ormai ampiamente interiorizzati in Occidente.
Non si tratta peraltro di una cultura esclusivamente derivativa: scomponendo gli elementi delle narrazioni come sceneggiatura, personaggi, background si possono creare nuove opere a loro modo originali che procedono per accumuli di imitazioni e plagi, all’occhio esterno a malapena distinguibili dalla storia di partenza e di sicuro in continuità con quel mondo di riferimento. In questa sorta di perenne decostruzione e ricostruzione si creano, dunque, prodotti anche autonomi e precipuamente designati per cultori. Il bisogno di fare rete sembra allora alla base di questi movimenti, come ci spiega Azuma: «Anche gli otaku postmoderni sono ’umani’ e nutrono dunque il desiderio di condurre una vita sociale». Gli otaku percepiscono, continua Azuma, «una più forte autenticità nella finzione che non nella realtà» e la maggior parte delle loro relazioni finisce per essere uno scambio di informazioni. In sostanza, può definire il nuovo genere di essere umano infognato in queste interazioni come un «animale accumuladati».
È UN’IMMAGINE affascinante e che coglie bene la realtà dell’esperienza contemporanea in Giappone e non solo. L’approccio otaku alla lettura di un manga, allora, è guardare al testo e all’immagine come a una serie di possibilità, di collegamenti ipertestuali che il lettore stesso, da fruitore, può attivare autonomamente e farli «rivivere» in altri ambiti. A volte perfino della vita reale: sull’isola artificiale di Odaiba, nella baia di Tokyo, il robot Gundam a grandezza naturale – dell’omonima serie di fumetti, cartoni animati e light novel – si muove torreggiando sui tanti visitatori che lo raggiungono ogni giorno. Forse a molti lettori questa cultura otaku potrà sembrare un gioco con simulacri che non hanno nulla a che vedere con la realtà, i cui protagonisti scelgono scientificamente di autosegregarsi in un mondo di finzioni. Tuttavia, quest’approccio consente di superare etichette e facili contrapposizioni fra alto e basso, accademia e sottocultura, arte e intrattenimento. L’ultimo steccato che resta da superare rimane quello fra realtà e finzione ma ora, scrive Azuma con piglio foucaultiano, «il compito di proseguire l’opera da qui in poi spetta adesso ai lettori».