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 2025  marzo 10 Lunedì calendario

“Fumo e ceneri”, la storia dell’oppio di Amitav Ghosh: “Il sistema è tossico. Liberiamoci”

Che impresa che ha compiuto Amitav Ghosh. Raccontare la storia dell’Occidente, la storia del capitalismo, a partire da una pianta – ieri papavero, oggi, in una delle sue più riuscite derivazioni chimiche, fentanyl – che a partire dal 1700, a sentire lo scrittore nato a Calcutta, ha determinato gli scenari geopolitici mondiali: l’oppio ha usato gli uomini a loro insaputa. E continua a farlo. Fumo e ceneri, il nuovo libro dello scrittore indiano americano, completa quella che il New York Times ha definito una trilogia sull’antropocene che è cominciata con La grande cecità ed è proseguita con La maledizione della noce moscata. Il nuovo libro ha fatto già molto discutere in India, dove è stato pubblicato in anteprima mondiale, e nel mercato anglofono: adesso arriva in Italia per Einaudi, che ha deciso di ripubblicare tutta l’opera dell’autore de Il cromosoma Calcutta. Per capire perché «l’oppio è stato uno dei pilastri sui quali è stato costruito il capitalismo globale moderno», dobbiamo seguire Ghosh per oltre tre secoli passando dall’India, dove il papavero cresceva in quantità, alla Cina: è stato per pagare il tè cinese che la Compagnia delle Indie dell’Impero britannico ha esportato il papavero che in pochi anni ha stretto la Cina nella morsa della tossicodipendenza. La stessa tossicodipendenza, da fentanyl stavolta, che oggi piega gli Stati Uniti. Perché – ne è certo Ghosh – tutto torna. Ma quella che lo scrittore ci racconta collegato su Zoom dalla sua casa di New York, alla vigilia di un tour che lo porterà in Italia, non è solo storia: «il capitalismo razziale», il colonialismo, hanno molto a che fare con quello che oggi accade intorno a noi. E intreccia indissolubilmente, secondo lo scrittore, il tema della lotta al cambiamento climatico. Con un’unica lezione da imparare: gli esseri umani non sono il centro del mondo.
Ghosh, prima la noce moscata e adesso l’oppio. Può una pianta essere un attore principale nella storia mondiale?
«Negli ultimi anni, mi sono interessato sempre di più all’idea di “agenzia botanica”. Con il papavero da oppio in particolare, è difficile ignorare la sensazione che ci sia all’opera un certo tipo di intelligenza: è riuscito a eludere ogni tentativo umano di contenerlo e limitarlo. In Afghanistan, l’esercito americano – la macchina militare più potente della storia umana – è stato essenzialmente sconfitto da un fiore all’apparenza umile. Uno degli aspetti più potenti di questa storia è che contraddice completamente l’idea che gli esseri umani siano unici per intelligenza e potere. La storia del papavero da oppio è, prima di tutto, una storia di fragilità e vulnerabilità umana: ci mostra come siamo stati costantemente superati in astuzia e strategia. Così come per il cambiamento climatico, la lezione più ampia è che noi esseri umani dobbiamo riconoscere i limiti della nostra intelligenza e delle nostre capacità e agire con la dovuta umiltà nei confronti delle altre specie».
Cosa c’entra la storia del commercio dell’oppio che lei ci racconta con gli scenari geopolitici di oggi?
«Scrivendo la trilogia Ibis (Mare di papaveri, Il fiume dell’oppio, Diluvio di fuoco, ndr), mi sono reso conto che il Papaver somniferum ha avuto un ruolo fondamentale nella storia umana, in particolare nella storia dell’Asia coloniale. Ancora oggi è presente in quasi tutti i principali conflitti mondiali: Messico, Myanmar, Manipur. Nel mio libro ho analizzato l’impatto dell’industria coloniale dell’oppio su India, Cina, Gran Bretagna e Stati Uniti. In India, gli effetti furono molto diversi a seconda della regione: in alcune parti del Paese l’industria del papavero causò miseria diffusa, mentre in altre stimolò il commercio e l’industria. Il capitale iniziale di molte imprese indiane proveniva proprio dall’oppio. Questo valeva non solo per l’India, ma anche per la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l’Asia orientale. Molte delle prime ferrovie americane furono finanziate con capitali derivati dall’oppio. In questo senso, la pianta è stata uno dei pilastri sul quale si è costruito il capitalismo globale moderno. L’economista Utsa Patnaik ha stimato che la Gran Bretagna ha drenato circa 44 trilioni di dollari dall’India nel corso di circa 200 anni. Una parte significativa di questa ricchezza proveniva dall’oppio».
Uno dei punti fermi del libro è la teoria del capitalismo razziale. Ce la spiega?
«La teoria del capitalismo razziale di Cedric Robinson sfida le analisi marxiste tradizionali, sostenendo che il capitalismo non è una rottura con il feudalesimo, ma un’evoluzione profondamente intrecciata con il razzismo. Ho approfondito questo tema nel mio libro La maledizione della noce moscata. La storia della noce moscata è un ottimo esempio di come operava il capitalismo razziale. Per gran parte della storia umana, l’albero della noce moscata, che produce sia noce moscata che macis, era endemico delle isole Banda, un piccolo arcipelago nell’attuale Indonesia. Nel Medioevo, queste spezie erano estremamente preziose e, non appena gli europei raggiunsero l’Oceano Indiano, le grandi potenze marittime iniziarono a competere per ottenerne il monopolio. Nel 1621, il governatore generale delle Indie orientali olandesi, Jan Pieterszoon Coen, inviò una flotta e un esercito alle isole Banda e, nel giro di poche settimane, eliminò l’intera popolazione (circa quindicimila persone). Dopo il massacro, la Compagnia olandese delle Indie orientali suddivise le isole in piantagioni, assegnandole a piantatori olandesi che furono riforniti di schiavi, per lo più provenienti dal Sud Asia. Questo sistema durò per oltre 300 anni. Gli olandesi avrebbero potuto mettere all’asta le piantagioni al miglior offerente, ma non lo fecero. Preferirono invece insediare piantatori bianchi. La razza fu un fattore cruciale nella configurazione di questa economia».
In “Fumo e ceneri” lei dà una nuova prospettiva della Cina, anche in questo caso attraverso la lente della razza: ne parla come di un Paese vittima del sistema capitalistico britannico che l’ha messo in ginocchio, facendo dilagare la tossicodipendenza da oppio.
«La Cina è stata vittima del sistema geopolitico che si sviluppò in quel periodo. L’Impero britannico introdusse l’oppio in Cina mantenendo un flusso costante per oltre un secolo, portando a una diffusione capillare della dipendenza e al collasso sociale. Un’operazione spregiudicata giustificata attraverso ideologie razziste che dipingevano i cinesi come inferiori e incapaci di autogovernarsi».
La storia dell’oppio diventerà la storia del fentanyl? Trump ha appena imposto pesanti dazi alla Cina dicendo che Pechino non collabora nella lotta al traffico di droga.
«Ci sono somiglianze sorprendenti. Proprio come l’oppio fu usato per destabilizzare la Cina nel XIX secolo, il fentanyl ha creato una crisi di dipendenza negli Stati Uniti. Ma esiste una differenza fondamentale: quello che proviene dalla Cina (e non solo) non è il fentanyl stesso, ma i precursori chimici necessari per produrlo. Uno dei problemi principali è che queste sostanze possono essere spedite a livello internazionale tramite corrieri senza essere rilevate. È difficile immaginare come si possa controllare questa situazione».
“Fumo e ceneri” intreccia il tema del capitalismo con quello a lei caro del cambiamento climatico. Cosa c’entra l’oppio con i combustibili fossili?
«Sono merci che hanno alimentato il capitalismo globale e la distruzione ecologica. Così come l’oppio ha arricchito l’Impero britannico a costo di devastazioni umane e ambientali, i combustibili fossili hanno alimentato l’industrializzazione moderna accelerando il cambiamento climatico. Entrambe le storie rivelano la logica distruttiva del capitalismo estrattivo».
Due anni fa, a poche settimane dal 7 ottobre e in pieno conflitto Russia-Ucraina, lei disse che stavamo vivendo la Terza guerra mondiale. Oggi che scenario vede?
«Ne La maledizione della noce moscata sostenevo che il cambiamento climatico è principalmente un problema geopolitico e che non può essere affrontato senza considerare le disparità globali di potere e ricchezza. Penso che gli eventi recenti abbiano completamente confermato la mia analisi. Vediamo ora che in Europa alcuni dei partiti che si dichiaravano più preoccupati per il cambiamento climatico sono diventati partiti di guerra, nonostante la guerra sia l’attività più distruttiva per l’ambiente. La distruzione del gasdotto Nord Stream II, per esempio, si dice abbia portato al rilascio di immense quantità di gas serra. In tutta Europa, i Paesi che sostenevano di non poter fornire fondi per la mitigazione climatica ora stanno riversando denaro in armi e armamenti. Quello che stiamo vedendo è, in realtà, un’accelerazione del mondo verso la catastrofe».
Stiamo sbagliando tutto nell’affrontare il cambiamento climatico da una prospettiva antropocentrica?
«Sì. Il cambiamento climatico non è solo una crisi umana: è una crisi planetaria. Non riconoscerlo significa rischiare di perpetuare gli stessi sistemi di sfruttamento che hanno causato la crisi. Una cosa che sicuramente cambierei ne La grande cecità, se lo scrivessi oggi, è il focus: il tema non è solo il cambiamento climatico ma, come dice Margaret Atwood, è il “cambiamento di tutto”. La perdita di biodiversità, per esempio, è un problema enorme del quale non ho parlato nel libro. Le estinzioni che stanno avvenendo intorno a noi sono incredibilmente importanti. In India, nel Golfo del Bengala e nel Mar Arabico stanno emergendo enormi zone morte: decine di migliaia di chilometri quadrati di acque anossiche, dove nulla può sopravvivere, dove i pesci non possono vivere, dove ogni creatura vivente sta morendo o è già morta. Mai avrei immaginato che il collasso politico potesse avvenire alla velocità con cui sta accadendo oggi. Tutto questo è interconnesso».
Chi trae vantaggio dalla distruzione del pianeta?
«Una piccola élite continua a trarre profitto dallo sfruttamento delle risorse naturali e della forza lavoro umana, mentre la maggioranza – specialmente nel Sud globale – ne subisce le conseguenze. Questa dinamica rispecchia il commercio dell’oppio, in cui pochi si arricchirono a scapito di innumerevoli vite».
Il movimento anti-oppio del quale parla lungamente nel libro potrebbe essere un modello per la lotta contro il cambiamento climatico?
«Il movimento anti-oppio ha dimostrato come l’attivismo dal basso e la cooperazione internazionale possano sfidare interessi potenti. Allo stesso modo, la lotta contro il cambiamento climatico richiede un’azione collettiva e una ridefinizione dei nostri sistemi economici».
Ma questa spinta continua a esserci? O nell’era Trump-Musk la forza del movimento pro-pianeta si sta affievolendo?
«Su Trump e Musk non ho molto da dire. Sul movimento per il clima, credo che cresca sempre di più la consapevolezza che le filosofie meccanicistiche dominanti in Occidente durante i secoli della colonizzazione non erano altro che ideologie di conquista. In tutto il mondo oggi ci sono movimenti che rifiutano concezioni estrattiviste del rapporto tra esseri umani e altri esseri viventi. Si dice persino che le religioni in più rapida crescita oggi siano quelle “centrate sulla Terra”. Come ha mostrato lo storico Prasenjit Duara nel suo libro The Crisis of Global Modernity esistono innumerevoli movimenti del genere nel Sud globale, specialmente in Asia. Eppure, è probabile che la maggior parte di questi movimenti centrati sulla Terra si trovi in Occidente. Questo perché le cose, in un certo senso, stanno tornando al punto di partenza: mentre le élite dei Paesi ex colonizzati come India e Indonesia corrono ad abbracciare pratiche coloniali (che non sono altro che il neoliberismo privo di retorica accattivante), molti giovani occidentali hanno capito che queste pratiche stanno portando il mondo – e soprattutto la loro generazione – verso il disastro».
Il libro si chiude con la speranza che le forze sociali possano davvero invertire la rotta. Ghosh c’è ancora una possibilità quindi?
«Il Pianeta ci sta mettendo alle strette. Quando ho iniziato a scrivere di cambiamento climatico, molte persone erano sorprese dal mio interesse per l’argomento, perché all’epoca c’era pochissima consapevolezza, sembrava una minaccia lontana. Ma tutto è cambiato drasticamente negli ultimi anni. Gli eventi climatici estremi sono diventati così comuni che è impossibile rimanere indifferenti al riscaldamento globale. Sta toccando la vita delle persone ovunque, indipendentemente da dove vivono o dalle loro condizioni. Ora è chiaro che la crisi climatica è un pericolo reale e immediato e che stiamo vivendo in un mondo profondamente trasformato, che ci costringe non solo a rivedere i nostri stili di vita, ma anche i nostri modi di pensare. Da quando ho scritto La grande cecità, nel 2017, c’è stato un significativo cambiamento. Non è avvenuto grazie a un processo intellettuale: è stata la Terra stessa a pensare per noi. Ci sta sfidando. Ci sta costringendo ad accettare che ci siamo sbagliati su quasi tutto. Quando questa verità diventa così evidente – letteralmente scritta nel mondo attraverso gli eventi terribili che si stanno verificando ovunque – ci si rende conto, inevitabilmente, che qualcosa è andato terribilmente storto. È il momento: la portata della crisi climatica impone un’urgenza e una solidarietà ancora maggiori».