La Stampa, 11 marzo 2025
Perché in futuro ci saranno due Dalai Lama? La successione riaccende il conflitto tra India e Cina
«Il nuovo Dalai Lama nascerà fuori dalla Cina». A metterlo nero su bianco è direttamente Tenzin Gyatso, il leader spirituale del buddismo tibetano. Si tratta del passaggio più sensibile contenuto nel suo nuovo libro “Voice for the Voiceless”, ed è la prima volta che il Dalai Lama in carica ufficializza il fatto che il suo successore nascerà in quello che lui definisce «mondo libero». Di segnali, in tal senso, ne erano arrivati già diversi, soprattutto a partire dalla rottura del dialogo tra il governo tibetano in esilio e il governo cinese. Ma la conferma arrivata direttamente dal Dalai Lama è destinata ad aumentare ulteriormente le tensioni. Col rischio più che mai concreto che alla sua morte il mondo avrà due Dalai Lama, uno nominato dalle autorità tibetane e appoggiato dall’Occidente e da altri Paesi, e un altro nominato dal Partito comunista cinese e appoggiato dai governi partner di Pechino.
«Poiché lo scopo di una reincarnazione è quello di portare avanti il lavoro del predecessore, il nuovo Dalai Lama nascerà nel mondo libero in modo che la missione tradizionale del Dalai Lama – cioè essere la voce della compassione universale, la guida spirituale del buddismo tibetano e il simbolo del Tibet che incarna le aspirazioni del popolo tibetano – continui», si legge nel libro. La vicenda affonda le radici nel secondo dopoguerra. Subito dopo la fine della guerra civile tra comunisti e nazionalisti, nel 1950, Mao Zedong invade il Tibet autonomo. Il Dalai Lama, allora giovanissimo e in carica già da una decina d’anni, fugge in India dopo la sanguinosa repressione delle rivolte del 1959. Pechino considera Tenzin Gyatso un “pericoloso separatista” ed è più volte intervenuta per provare a evitare i suoi incontri a livello internazionale.
Dopo le grandi proteste del 2008, che hanno avuto grande eco internazionale con l’interessamento di diversi divi hollywoodiani, la Cina era convinta di aver sostanzialmente risolto la questione tibetana. Dopo aver sradicato l’opposizione in seguito alla repressione delle rivolte, il Partito comunista ha adottato una doppia linea: sviluppo economico e assimilazione culturale. I grandi investimenti nella regione autonoma hanno portato maggiore benessere ai tibetani, su cui d’altro canto si è adottata una strategia di sinizzazione volta a ridurre le turbolenze interne. Tanto che da qualche anno governo e media cinesi utilizzano il nome del Tibet in mandarino, Xizang, anche nei documenti e contenuti in lingua inglese.
Con la questione della successione del Dalai Lama, a Pechino c’è però chi teme che il dossier possa riaprirsi. Segnali in tal senso sono arrivati già negli scorsi anni, quando nel 2020 Donald Trump ha ricevuto alla Casa Bianca (ancora durante il suo mandato) l’allora leader del governo tibetano in esilio. Oppure l’anno scorso, quando una delegazione di deputati e senatori statunitensi guidata da Nancy Pelosi si è recata a Dharamsala a visitare il Dalai Lama.
Qualche mese fa, l’attuale leader del governo tibetano in esilio, Penpa Tsering, ha dichiarato durante un viaggio in Australia che, se Pechino manterrà l’intenzione di nominare un suo Dalai Lama, ce ne saranno presto due. Le avvisaglie di quanto potrebbe accadere ci sono già dal 1995, quando un bambino di 6 anni, Gedhun Choekyi Nyima, fu scelto come nuovo Panchen Lama, la seconda figura più importante del buddhismo tibetano. Tre giorni dopo venne preso in custodia dalle autorità cinesi e sostituito con un altro candidato, Gyaincain Norbu. Sin da allora, la sorte del piccolo Gedhun è rimasta incerta.
La vicenda ha diverse sfaccettature, sia spirituali che politiche, sia regionali che internazionali. Già, perché si innesta sullo spinoso tema del confine conteso con l’India, ma anche sulla stabilità interna del Tibet, che il Partito comunista non vuole certo veder diventare teatro di nuove turbolenze. Nei prossimi anni se ne parlerà parecchio.