La Stampa, 11 marzo 2025
Francesco De Gregori: “Fellini mi ha aperto gli occhi, Ettore Scola ha ispirato Pablo”
Le note di apertura sono quelle di Rimmel, il brano che quest’anno festeggia mezzo secolo di vita, però Francesco De Gregori non è qui per parlare di canzoni». Ospite d’onore della puntata di Hollywood Party Factory su Rai Radio 3, il principe, intervistato dal conduttore Steve Della Casa, racconta la sua passione per il cinema, i film che lo hanno segnato e gli autori da cui ha appreso cose importanti: «Con la Dolce Vita ho capito che il cinema non era solo fatto di storie e immagini, ma aveva anche la possibilità di affondare la lama del suo coltello in altri contesti, producendo quelle opere che, una volta, si chiamavano impegnate». La frequentazione delle sale da ragazzo era assidua: «Andavo al cinema 5 o 6 volte a settimana, vedevo di tutto, e rimanevo fino alla fine, adesso se una cosa non mi piace, me ne vado». La scoperta fondamentale è legata alla Dolce vita di Fellini: «La mia non era una famiglia particolarmente bacchettona – ricorda De Gregori – però ho ancora in testa le discussioni, le polemiche, che accompagnarono, anche a casa mia, l’uscita di quel film. Avevo 9 anni, poi l’ho visto quando ero grandicello, avevo 16 anni, ho realizzato quanto grandi potevano essere le potenzialità del cinema. Di quel cinema, quello che poi ho continuato ad amare per tutta la vita».
Tanti, per De Gregori, i motivi di quella prima passione: «Era un film che voltava pagina, non aveva niente a che vedere con il neorealismo e, per questo, non piacque né a destra né a sinistra. Fellini si divertiva un sacco a mescolare la cultura pop a quella alta, a un certo punto appariva anche Adriano Celentano, e poi mi ero subito innamorato di Anouk Aimèè». E poi svela che sempre Fellini, con 8 ½, gli ha cambiato lo sguardo: «Mi ha aperto gli occhi anche nell’ambito di quello che poteva fare con una canzonetta, narrare seguendo un filone psicanalitico, infrangere la consequenzialità e i tempi, passare da un piano lungo a un primo piano e spezzare anche i nessi logici».
In quel tempo di cambiamenti veloci, succedeva che, da una stagione all’altra, si respirasse un’altra aria: «Cambia epoca, arrivano i soldi e arriva anche il beat». Sull’onda del clamore della «Swinging London», Michelangelo Antonioni dirige Blow-Up, protagonisti Vanessa Redgrave e David Hemmings nei panni del fotografo Thomas: «Comprai una macchina fotografica, la più economica fra le possibili reflex, si chiamava Petri, certo non era come quella usata da Thomas nel film, però fu quel racconto a farmi nascere la passione per la fotografia, presi anche un ingranditore, cominciai a stampare foto». La vicenda, con il protagonista convinto di aver assistito a un assassinio, fece comprendere al giovane De Gregori un concetto di «filosofia kantiana», riguardante il rapporto tra realtà e simulacro. E dire, aggiunge Della Casa, che la ragione per cui Antonioni aveva deciso di ambientare Blow-Up a Londra, era in realtà, legata alla sua volontà di restare accanto all’allora compagna Monica Vitti, impegnata, in quel periodo, nella lavorazione del film di Joseph Losey Modesty Blaise La bellissima che uccide.
Negli intermezzi musicali (il pezzo di apertura è The death is not the end, di Bob Dylan, eseguito da Nick Cave con Kilie Minogue) l’autore di Generale batte il piede per terra, commenta, torna sommessamente il De Gregori dei concerti e dei brani leggendari. Ma la star è il cinema e si parla solo di pellicole e registi. L’altro classico amatissimo è Festa per il compleanno del caro amico Harold (The boys in the band), di William Friedkin, 1970, cronaca di una serata di festeggiamenti in onore dell’amico del protagonista gay, Michael, il tutto sullo sfondo di una New York borghese e intellettuale: «Mi colpì moltissimo, era il primo film che rappresentava il mondo omosessuale senza essere grottesco né morboso». Assistere a quel modo di ritrarre la realtà, così fedele e rispettoso, fu un’altra epifania: «Erano gli anni in cui i vecchi schemi saltavano, un periodo rivoluzionario, avevo 19 anni, ero una spugna, e tutt’intorno esplodeva la protesta giovanile». L’epopea western descritta da una prospettiva opposta a quella dei classici con John Wayne si svela agli occhi dello spettatore De Gregori in Soldato blu, diretto da Ralph Nelson: «Lo smascheramento della mitologia western, qui si stava dalla parte degli indiani».
Dal grande schermo nascono suggestioni e queste si trasmettono alla musica e alle storie che racconta: Accadde anche con Trevico-Torino Viaggio nel Fiat- Nam”, diretto da Ettore Scola: «Un film molto ideologico, raccontava la vicenda di un emigrante che va a Torino a lavorare alla Fiat e vive l’impatto con una città che gli appare quasi disumana. Ricordo soprattutto l’arrivo alla Stazione di Porta Nuova, c’era un sonoro assordante, diabolico… Eravamo tutti di sinistra, l’ho visto e rivisto più volte». Dal film svela De Gregori, è nata la canzone Pablo, con «due protagonisti privi di sapienza politica, due naufraghi in una terra straniera».