il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2025
L’arte di essere Goliarda Sapienza
Un giorno in classe, era la scuola littorissima degli anni Trenta, la ragazzina disse che i romani erano peggio dei fascisti perché avevano crocifisso Spartaco e i suoi compagni. Allora suo padre la portò sulla terrazza di casa, le fece togliere la divisa di piccola italiana e la bruciò davanti ai suoi occhi. A scuola non ci andò più, ma a dodici anni – sapeva già sparare e tirare di boxe – aveva letto tutto Dostoevskij, Tolstoj e I miserabili, La fossa di Kuprin e Sanin di Artsybashev, lo scandaloso romanzo russo che l’avrebbe ispirata. Non ci aspettavamo di meno dalla piccola Goliarda Sapienza, scrittrice, attrice, antifascista, anima mai davvero perduta dentro una vita che è impossibile raccontare nelle poche righe di un articolo.
Siamo a Catania, il secolo breve albeggia e il fascismo di governo svela definitivamente la sua anima totalitaria: Goliarda nasce a Catania il 10 maggio 1924, un mese dopo le ultime elezioni “libere” prima della dittatura, un mese prima dell’omicidio Matteotti. I suoi genitori sono due monumenti alla libertà: la mamma, Maria Giudice, socialista, dirigente sindacale, fondatrice dell’Udi, direttrice del Grido del popolo prima di Gramsci; il papà Giuseppe, avvocato socialista, antifascista, eletto alla Costituente, passionale e vitalissimo, libertario e libertino (morirà tra le braccia di una giovane amante in un hotel di Palermo). I due si incontrano in Sicilia vedovi e già genitori di numerosa prole: dalla loro unione nasce Goliarda, il nome ereditato da un fratellastro morto prima della sua nascita. A Roma, dove la famiglia si trasferisce, Goliarda studia all’Accademia d’arte drammatica diretta da Silvio D’Amico, ha successo come attrice teatrale in ruoli pirandelliani, bazzica con alterne fortune il cinema, recitando per Blasetti, Visconti e Citto Maselli che diventerà suo compagno. Ma è la scrittura la vera vocazione: il primo romanzo è Lettera aperta (1967), storia di una educazione sentimentale nella Catania fascista, segue Il filo di Mezzogiorno che suscita più interesse soprattutto nell’ambiente psicanalitico, dato che è il racconto del percorso terapeutico di Goliarda, che come la madre soffre di un male oscuro che la conduce in manicomio (dove subirà l’elettroshock). Ci sarà anche il carcere nella sua vita, e non per ragioni politiche, come capitato tante volte alla mamma, ma per un furto di gioielli causato da una povertà ormai cronica. E sarà un soggiorno sereno, perché “fuori la galera è più atroce”: nasce un altro libro, L’università di Rebibbia.
I primi lavori sono, nelle intenzioni di Goliarda, una sorta di autobiografia a rate (oggi in libreria per Einaudi riuniti sotto il titolo di Autobiografia delle contraddizioni), che avrebbe dovuto aggiornare di volta in volta i ricordi e le esperienze, le riflessioni e le storie. Poi comincia la lunghissima gestazione del suo capolavoro, L’arte della Gioia. Un romanzo straordinario (come la sua storia editoriale) a cui la scrittrice lavora per anni praticamente in clausura, ma che ingiallisce in una cassapanca per due decenni, rosicchiato dagli insetti. Rifiutato più volte da più editori, il libro esce grazie all’amorevole pervicacia, alla dedizione e al lavoro editoriale di Angelo Pellegrino – grecista, attore, scrittore e marito di Goliarda: dopo la sua morte, nel 1996, viene pubblicato in poche copie, ma viene tradotto in Germania e in Francia.
Solo allora comincia la fortuna di un romanzo meraviglioso, come la sua protagonista che ha il destino, all’incontrario, nel nome: Modesta, nata simbolicamente con il secolo che sarà delle donne, il primo gennaio 1900. “La felicità ha storia. La felicità è l’unica cosa che andrebbe descritta, insegnata”, scriveva Goliarda in Lettera aperta. E nel suo romanzo-mondo, ci riesce perfettamente. Di questo libro si parla per la sua caratteristica più evidente, il ritratto di una donna libera, intelligente, passionale, che ama indistintamente uomini e donne, lascia morire la madre e la sorella down, sopravvive allo stupro incestuoso del padre quando è ancora una bambina, diventa principessa sposando un nobile a sua volta down… Modesta è davvero il contrario del suo nome, è un’antieroina secondo i canoni classici, ma diventa per ogni donna che la incontri, un’eroina insostituibile, capace davvero di insegnare la gioia, anche carnale, di essere femmine. Si prende tutto Modesta, senza pudore: l’amore, la cultura, la maternità, il piacere, la libertà di esistere fuori dalle convenzioni. Ma c’è anche uno stile unico, ingiustamente sottovalutato, la voce di una scrittura luminosa, anarchica (passa, più volte, dalla prima persona alla terza senza apparenti ragioni), tumultuosa, sicilianissima e colta, puntuale e affilata come un bisturi.
Torniamo a parlare dell’Arte della gioia per una bellissima miniserie su in onda Sky diretta da Valeria Golino, che vale la pena di vedere, nonostante gli inevitabili tradimenti della trasposizione. Era ora: quando, dopo il carcere, fu proposta alla Rai una sceneggiatura del romanzo, il dirigente incaricato si mise le mani nei capelli: “Questa donna uccide la madre, la sorella, la prima e la seconda benefattrice, fa sesso con uomini e donne, commette un reato dopo l’altro e in tutta la vita non paga mai una volta? Volete fare saltare in aria la Rai?”.