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 2025  marzo 09 Domenica calendario

Scolpisco odori d’amianto (che spappola i polmoni)

Quando arrivo nel suo studio di viale Bligny 42 a Milano – sul retro di uno stabile che è un cantiere, con manovali che vanno su e giù frenetici dai piani, le bici di rider turchi o pachistani parcheggiate – Luca Vitone scende le scale che dal piano superiore del suo studio portano al pianterreno. Ha capelli corti brizzolati, un viso florido dai tratti orientali, ed è rigorosamente vestito di nero: camicia Mao suit, simile a quelle che indossava il Grande Timoniere, scarpe stringate lucide.
Il suo atelier si trova in questo stabile che ha resistito tenacemente per anni alla gentrificazione, un alveare di 200 miniappartamenti dove una volta abitavano soprattutto stranieri clandestini, prostitute, travestiti, spacciatori – con tutto il fascino doloroso di un luogo di frontiera a un tiro di schioppo da via Bocconi. Qui dove una volta c’era la galleria di Emi Fontana, a sinistra si trovano le due stanze dove lavora, mentre al centro, nell’ingresso, una panchina bianca in metallo è posta su un lato e sullo sfondo incombe un grande quadro dalle tinte marroni. È una delle opere monocromatiche del 2000 che Vitone ha realizzato utilizzando la polvere raccolta per terra al Museo Macro di Roma, un non-pigmento che minerebbe lo statuto della pittura e che invece ha voluto far diventare protagonista dei suoi lavori, lui che non si definisce un pittore ma uno scultore «duchampiano» nell’accezione contemporanea.
Sul soffitto corre il tubo bianco spaziale del ricambio dell’aria. Nelle ultime due stanze si trovano la biblioteca – libri d’arte, cataloghi, ma anche molti romanzi e volumi di poesia – e al piano di sopra un piccolo studio dal quale si accede da una scala in metallo con un affaccio sul piano sottostante, che è un po’ un osservatorio e una specie di rifugio segreto.
Vitone tiene subito a precisare che non è un attivista, «il mio mestiere è quello dell’artista, non voglio essere didascalico, illustrativo, desidero soprattutto mantenere la mia poetica, ma credo che l’aspetto politico, sociale – sostiene – ci coinvolga totalmente, siamo soggetti politici, come dice Noam Chomsky, ho una dimensione politica che ho sempre frequentato fin da ragazzo».
L’anagrafe – è nato nel 1964 – tradisce il conio di uno che come me si è formato nei collettivi studenteschi degli anni Settanta. Mi fa vedere la copertina di un libro con una foto di Uliano Lucas e sopra una sua carta topica del 1988 di una mostra allestita a Nizza lo scorso anno: «È quella di un territorio reale alla quale ho tolto i toponimi, così non rivela nessun luogo specifico, siamo in un totale disorientamento».
Lo storico dell’arte Marco Scotini, curatore di quella collettiva, ha scritto che la «carta smemorata» di Vitone è un’opera che rappresenta la generazione ribelle del ’77, precipitata «nello spaesamento degli anni Ottanta in cui prendere la parola non era facile», poiché era in corso – come la definisce l’artista genovese che vive tra Milano e Berlino – «una restaurazione, una controrivoluzione», un’epoca in cui è completamente cambiato il linguaggio pubblico e la condizione di chi, vissuti gli anni collettivi, si ritrovava catapultato all’improvviso nella società edonistica dell’io.
Da una decina d’anni Vitone sperimenta opere che utilizzano la polvere. Quella degli interni, degli appartamenti e degli uffici e delle fabbriche, e quella degli esterni. «Ho esposto alcune tele all’aperto e ho aspettato che il tempo, cronologico e atmosferico, lasciasse un’impronta», racconta mentre siamo seduti uno di fronte all’altro al centro dello studio. Un’operazione allo stesso tempo materica e concettuale, naturale e filosofica. Gesticola, Vitone, concentrato, spiega senza mai perdere il filo, «per invitare il paesaggio, i luoghi, ad autoritrarsi», dice ancora. «Poi ho usato le ceneri dei termovalorizzatori di Milano, un monocromo grigio, un po’ specchiante e un po’ invitante – lo definisce —. La nostra spazzatura, il risultato della nostra società dei consumi; così questo diventa un lavoro politico, perché i casi sono due: o l’abbiamo nascosta grazie alla mafia nei terreni della Campania, nelle Terre dei fuochi, oppure la vendiamo ai Paesi poveri che si riempiono di spazzatura. È la nostra cattiva coscienza», sentenzia con sdegno.
Ma Vitone voleva anche fare qualcosa dove l’espressione del potere fosse ancora più forte. In un primo momento aveva pensato di usare l’amianto o l’uranio impoverito, ma quest’ultimo è molto complicato da trattare, così ha scelto il primo, un materiale che nel frattempo è diventato un simbolo, da principe dell’edilizia a strumento di morte. «Si sapeva già dai primi del Novecento che era molto pericoloso, solo che le aziende produttrici, come spesso accade, sono riuscite a convincere chi doveva parlarne, studiarlo, denunciarlo, a chiudere gli occhi». L’amianto, bandito in Europa negli anni Ottanta, continua a produrre business e a mietere vittime innocenti nei Paesi più poveri come l’India, il Brasile, in Africa, per quello che Vitone definisce «un dato neocoloniale molto violento».
Questo gli interessa. Vitone sta preparando alcune opere, che mi fa vedere, per la mostra appena inaugurata a Pescara alla Fondazione La Rocca con un titolo vagamente profetico se pensiamo all’Eternit e anche altisonante, per l’eternità: un trittico sull’olfatto, un’istallazione che riunisce opere fotografiche, pittoriche, collage e un video girato a Casale Monferrato dove l’artista ha intervistato soprattutto le vittime di uno tra i più grandi disastri ambientali del Novecento, quello provocato dalla fabbrica di cemento Eternit, e una scultura volatile, già protagonista della Biennale di Venezia del 2013.
Le altre due opere olfattive della trilogia, dopo il potere del capitale finanziario legato all’amianto, cioè a Eternit, sono l’odore del potere statale, burocratico, intitolato Imperium (con la polvere del Parlamento federale di Berlino, quella della Banca centrale di Francoforte, quella della Corte suprema di Karlsruhe e quella del Pergamon Museum), fatto più di muschi e sudore; e l’odore del potere militare. Per quest’ultimo, dal titolo Un racconto di lingue biforcute, Vitone ha pensato all’odore del vaiolo.
Quando mi mostra sul pc il video girato a camera fissa che inquadra le acque del Po – le foglie degli alberi, la spiaggia che si riempie di polverino, il cemento amianto che solo a Casale ha provocato la morte di centinaia di persone – e scorrono le voci dei testimoni, che sembrano quelle delle anime morte di un coro di dannati, mi torna in mente il giorno in cui camminavo per le strade della cittadina piemontese facendo come lui le interviste. Stavo scrivendo un reportage per «Hesamag», la rivista dell’Etui, il centro studi dei sindacati europei; giravo angosciato per il centro storico, mi spostavo in periferia, dove c’era la fabbrica, parlavo con ex operai, sindacalisti, famigliari delle vittime. Capto nel video il dialetto affabulatorio stretto che pronuncia Pietro Condello, l’operaio messinese arrivato dalla Sicilia con la fame di lavoro, i capelli bianchi corti, la faccia piena di rughe e un paio d’occhi celesti che brillano, entrato in fabbrica nel 1976 per uscirne nel 1989 nel momento della chiusura, sempre vestito con la tuta blu e la scritta gialla Eternit, che ha indossato in tutte le 66 udienze dei molti processi.
Lavorava al reparto Materie prime, dove di trenta lavoratori ne sono sopravvissuti due: «C’era l’amianto sfuso blu – mi raccontò —. Facevo il facchino, prendevo i sacchi, li tagliavo con il coltello e li mettevo sulle tramogge». Aveva il 73% di asbestosi, la polvere incistata nei polmoni, «mi manca il fiato», raccontò quel giorno, «a volte devo attaccare la bombola dell’ossigeno, di notte dormo con i cuscini dietro la schiena, altrimenti mi sento soffocare». Mi disse che nella fabbrica non c’era un sistema di ventilazione, pulivano per terra con le scope: «Ci davano mascherine leggere, ma dopo mezz’ora dovevi buttarle perché erano piene di polvere, la fabbrica era piena di polvere, la trovavi dappertutto», aggiunse. Sua moglie era morta per aver toccato e lavato le sue tute da lavoro. Anche quello mi raccontò Condello.
Tra i tanti che Vitone ha intervistato – e tra loro c’è il sindacalista Bruno Pesce, memoria storica e ostinato protagonista della lotta contro l’amianto nel territorio casalese, in Italia e nel mondo – quello che ricorda in modo più struggente è un giovane atleta dalla vita spezzata, «sembrava che potesse diventare un campione, tutti lo immaginavano come un nuovo Mennea, correva, si allenava, in questa cittadina pareva arrivato il sogno di qualcuno che può eccellere in qualcosa», dice malinconico. «Purtroppo è stato colpito da mesotelioma, è morto giovanissimo, non c’è più». Perché adesso continuano a morire i più giovani, quelli che erano bambini quando la fabbrica chiuse, quarant’anni fa. La polvere entrava dappertutto, nelle case e nelle centrifughe delle lavatrici con le tute sporche dei lavoratori, stava nei sottotetti, nei cortili degli uffici, nei vialetti del cimitero, nelle lastre di copertura di molte case.
Vitone mi accompagna in cima a una rampa di scale di ferro. Quando decise di portare l’eternit alla Biennale di Venezia all’inizio pensò a una pavimentazione, come in una basilica, dove i reperti paleocristiani sono protetti da una lastra di cristallo e la gente ci cammina sopra. Avrebbe dovuto fare l’allestimento in uno spazio con accanto il Viaggio in Italia di Luigi Ghirri, «un grande onore, è stato un fotografo importante per la mia formazione, come lo è stato Ugo Mulas, però ingombrante. Pensai: che cosa posso fare per difendermi dalla grande forza di questo artista?».
Gli venne in mente di creare l’odore dell’eternit, un materiale che in natura non ha profumo. «Allora ho cominciato a pensare all’odore come una vera scultura, dovevo inventarmi una cosa che non esiste, anche se l’invisibilità mette in crisi lo statuto della scultura», confessa mentre torniamo al piano di sotto.
Con l’aiuto della profumiera Maria Candida Gentile, con la quale è andato a Casale Monferrato, ha iniziato a intervistare le persone per quella che chiama «una storia talmente violenta, talmente forte» fatta di racconti drammatici sconvolgenti. «Poi è venuto fuori l’odore di rabarbaro, mono-olfattivo, che diventava una scultura monocroma, con un solo colore, oppure più manzoniana, acromatica, si collegava alle polveri, alla cenere».
Quando comincia a lavorare legge molto. Confida: «I libri sono fondamentali, ma anche il cinema; in questo caso ho letto i romanzi di Alberto Prunetti e Stefano Valenti, ma nei miei ragionamenti tornano anche Roland Barthes, Mike Davis». A quello che si definisce scherzosamente «vecchio e analogico» però è riuscita una beffa nei confronti del sistema culturale: «Oggi ogni mostra è instagrammata, fotografata, anche la mostra sonora può essere ripresa, con l’odore non lo puoi fare, è un’opera che o vai dove si trova o non la puoi percepire». Quello del rabarbaro è un odore gradevole, in un primo momento seducente, piacevole, «però raspa un po’ la gola, tanto che dopo un po’ che lo respiri ti viene voglia di cambiare aria, di aprire una finestra, di andartene», dice divertito. Risultato: i visitatori alla fine si sentivano male, dicevano di avere inalato l’eternit, uno fu portato via con l’ambulanza. Molti cercavano l’opera ma vedevano solo la didascalia. Miracolo dell’arte, riuscire a creare ciò che non esiste, persino una scultura invisibile e olfattiva, ma in realtà concreta, che ha un corpo volatile. Una scultura enorme, fatta di un effluvio gassoso che si libera nell’aria, attraversa i luoghi, entra nei polmoni, arrivando subito dopo a colpire i neuroni e provocando uno choc psichico, emotivo, grazie alla forza selvaggia dell’immaginazione.