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 2025  marzo 09 Domenica calendario

L’uomo che aveva una retromarcia in più

Flavio Pagano, un milione di giorni fanno 2.700 anni. Perché questo titolo?
«Un grande pittore diceva ai suoi allievi: “Uscite all’alba e imparate a dipingere la luce del giorno”. In letteratura l’equivalente della luce è il tempo. Io ho provato a dipingerlo, intrecciando due storie. Una comincia nel giorno in cui viene messo a morte Socrate; e una si consuma nell’arco di poche settimane, negli anni Novanta».
Il libro comincia con un uomo che racconta il proprio ritorno a casa, lo sbarco alla stazione di Napoli Centrale: «In cerca di sicurezze (…) mi ritrovavo invece coinvolto in uno spaventoso naufragio». In «Perdutamente» e in «Infinito pre sente», il naufragio era frutto del ciclone Alzheimer. E questa volta?
«Questa volta il ciclone è la vita stessa… Ma la scrittura coglie anche qui il sorriso che nasce da cose su cui, in teoria, ci sarebbe poco da ridere. Come quando il protagonista deve piazzare il catetere al padre in fin di vita: “La mia battaglia col pene di mio padre fu cauta, ma intensa. Rivissi sensazioni bibliche di castigo per aver osato scorgere la nudità del genitore. Ma mi feci coraggio e lo toccai. L’inserimento e il fissaggio del catetere si rivelarono più semplici del previsto, ma i preliminari furono imbarazzanti al limite del capogiro. Mio fratello cominciò ad agitarsi. Gesticolava in maniera strana, e mia madre, sorridendo con una dolcezza che neanche la stanchezza poté scalfire, spiegò, come se fosse la cosa più ovvia del mondo: ‘Ha imparato il linguaggio dei segni, quand’è un po’ teso usa quello’. Avevo appena maneggiato il glande paterno, e ci voleva altro adesso per sorprendermi e farmi increspare il sopracciglio”. Io e mio padre non ci eravamo praticamente mai abbracciati, e iniziare i nostri contatti partendo dal pene non fu la cosa più facile… Ma l’ironia è una strana arma potente: semina vita».
In casa ci sono un’amorevole madre-moglie e un fratello misterioso e irraggiungibile. Lei descrive così la scena in cui i protagonisti cercano di decifrare il mormorio del patriarca: «Tutti insieme ci affacciammo sul letto. Sembrava «La lezione di anatomia» di Rembrandt. Mia madre muoveva la bocca insieme a mio padre. Mio fratello invece lo fissava impassibile. Ma forse era l’unico che lo capiva». Qual è stato il personaggio più difficile da tratteggiare?
«La follia, che qui è di per sé un personaggio. I matti vedono, sentono. Ma non usano gli occhi e le orecchie. Raccontarne il dolore, l’imbarazzante sapienza, dotare il romanzo di un proprio inconscio, è stata una grande sfida. In Italia la malattia psichiatrica colpisce centinaia di migliaia di persone, e quindi di famiglie. Ma la società li ignora, perché abbiamo smesso di occuparci di tutto ciò che è scomodo. Si parla di fare di Gaza un villaggio turistico, di trasformare il sangue degli innocenti in Coca-Cola. Con che coraggio chiamiamo matti i matti?».
«Un milione di giorni» è basato su meccanismo narrativo che mescola indissolubilmente realtà e finzione: da un lato la saga familiare, dall’altro l’epopea di una misteriosa pietra che, dall’alba della civiltà, risale fino al presente. Che cosa simboleggia questa scelta?
«La pietra che viaggia di generazione in generazione esprime il nostro desiderio di trattenere il presente, ovvero il rovescio della nostra incapacità di viverlo. Ma, al di là degli eventi che si susseguono, è il tempo in sé che carica la pietra di significati, e il libro di una vita propria».
Le case sono fatte di pietra. E la perdita della casa è un motore fondamentale del libro. C’è l’assedio dei nuovi proprietari, il quartiere che si mobilita, l’arrocco dei protagonisti che progettano di calare dalla finestra la salma paterna pur di non lasciare la trincea…
«Lo sfratto forzato è uno stupro. La casa in questione, dove ho realmente vissuto, è in uno dei palazzi più famosi di Napoli. La mia camera da letto affacciava sul Cristo velato della Cappella Sansevero, ma il discorso è uguale anche per una baracca. Persino negli zoo gli animali hanno una tana per nascondersi. Una società dove c’è chi finisce per strada, è incivile».
E poi c’è una grande biblioteca, legata a un piccolo rito paterno: «Quando papà entrava o usciva dallo studio, sussurrava ai libri schierati sugli interminabili scaffali buongiorno e buonasera». Anche lei saluta i libri?
«A volte, ma non mi rispondono… I libri sono diventati diffidenti. La cultura occidentale dorme con il pollice in bocca, anche quando sogna mostri. Non c’è più coraggio, voglia di stupire, osare, sbagliare. Il fondamentalismo mercantile ha fatto danni enormi».
Oltre la letteratura?
«Sto adattando per il teatro Perdutamente, ma da alcuni anni sento il bisogno di una creatività più istintiva. Penso all’installazione migrante uMani, che gira l’Italia promuovendo l’inclusione; o a Natività riflessa, presepe laico dedicato alle donne vittime di violenza, al posto del Bambino Gesù una bambinella. L’anno scorso ho realizzato il mio quarto cortometraggio, In principio era il Canto, protagonista Katia Ricciarelli, del quale ho scritto anche le musiche originali».
Il protagonista, nel libro, ricorda una battuta del padre che si vantava di avere «una retromarcia in più». In un mondo che schizza sempre avanti, quanto è importante?

«Sì, il mondo “schizza”. E ingranare la retromarcia può essere un prezioso ombrello di saggezza».