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 2025  marzo 09 Domenica calendario

Attilio Bertolucci L’invenzione del padre

Nel bellissimo La casa del poeta di Paolo Lagazzi confluiscono e si mescolano vari generi di prosa: la confessione, il ritratto, il diario, il saggio critico, l’esplorazione di case e paesaggi naturali, la divagazione morale e filosofica… Come ha scritto Truman Capote nella celebre introduzione a Musica per camaleonti, esistono forme ibride di prosa in cui uno scrittore può riversare tutto ciò che ha imparato dal suo lavoro. E leggendo La casa del poeta ci rendiamo conto che l’autore non avrebbe potuto affrontare la sua materia in un modo diverso – l’unicità di quell’uomo inimitabile che è stato Attilio Bertolucci esigeva dall’autore una forma altrettanto irripetibile a farle da specchio.
Il grande poeta non è stato certamente l’unico «faro», per dirla con Charles Baudelaire, di Lagazzi: basterà qui ricordare il rapporto con Pietro Citati, nutrito di complicità e ammirazione, e la conoscenza approfondita della tradizione poetica giapponese e della sapienza zen. Ma quando bussa alla porta della casa dei Bertolucci a Casarola (Parma), nell’estate del 1973, l’allora giovanissimo Lagazzi sperimenta quella che, senza nessuna esagerazione, possiamo definire l’attraversamento di una soglia, di una linea d’ombra.
Il motivo di quel primo viaggio da Parma a Casarola è abbastanza prosaico e attendibile, in fin dei conti: Lagazzi vuole dedicare a Bertolucci (che ha da poco superato i sessant’anni) la sua tesi di laurea, e ha bisogno di interrogarlo su molti punti e aspetti delle sue raccolte poetiche. Si noti che Bertolucci – di cui il 14 giugno ricorreranno i 25 anni dalla morte – non è affatto il poeta che conosciamo oggi, associandolo alle opere dell’ultima stagione e soprattutto alla Camera da letto. Ha già scritto dei capolavori come La capanna indiana e Viaggio d’inverno, ha avuto lettori disposti a mettere la mano sul fuoco per lui del rango di Eugenio Montale e Pier Paolo Pasolini, ma è ancora un artista in divenire, spronato dall’inquietudine e dalle sue proverbiali extrasistoli. Nemmeno le sue qualità di prosatore erano evidenti come diventeranno nel 1991, quando Garzanti, il suo editore di riferimento, manderà in libreria quell’eccelsa raccolta di articoli e saggi che è Aritmie. Ma a Lagazzi non manca certo la materia per una tesi di laurea di tutto rispetto! Semmai, il suo problema è quello della ricerca di un linguaggio adeguato all’esperienza della lettura di un grande poeta contemporaneo.
Esisteva, come è sempre esistito e sempre esisterà, uno stile accademico dominante, con il suo lessico e i suoi metodi. Niente di male: non si può negare a questo linguaggio la capacità di produrre conoscenze. Ma l’uomo che Lagazzi incontra a Casarola, e che finisce per accordargli la sua fiducia, non può essere circoscritto in formule critiche che sono certamente degne di rispetto, ma che sembrano sempre mancare l’essenziale, e in fin dei conti sono buone per tutti, come se arretrassero di fronte alla posta in gioco più importante, che è l’unicità dell’individuo, la sua personalissima risposta alla pressione del mondo.
La collocazione di Bertolucci all’interno della storia della poesia italiana del Novecento, insomma, è una conseguenza diretta, impossibile da trascurare, del modo in cui il poeta ha vissuto la propria vita, dei luoghi che ha abitato, della genealogia da cui proviene, di tutto ciò che ha amato e di tutto ciò a cui ha rinunciato. Ebbene, comprendo perfettamente l’imbarazzo e l’insoddisfazione che opprimono il ragazzo in pellegrinaggio a Casarola, perché, una decina d’anni dopo, sono stati esattamente i miei. Come tanti altri, Paolo e io eravamo destinati a diventare, a nostra volta, dei professori di letteratura italiana, ma al momento di metterci all’opera non avevamo il linguaggio, o la mentalità, necessari a produrre i mattoni della nostra carriera. Non essendo nemmeno dei giornalisti veri e propri, senza nemmeno deciderlo consapevolmente ci siamo trovati in una terra di nessuno che a seconda dei casi e delle stagioni si è rivelata uno spazio di inebriante libertà o un luogo d’esilio, una manganelliana palude definitiva.
Non è un caso che l’apprendista stregone si porti in valigia, nella sua spedizione appenninica, i libri adorabili e un po’ strampalati di un genio solitario come Gaston Bachelard, che leggeva la poesia moderna come avrebbe fatto un sapiente presocratico, interrogando l’energia simbolica e il potere suggestivo degli elementi primari come il fuoco, la terra, l’acqua.
In quel Novecento che ormai si affrettava verso i suoi bagliori terminali, Bachelard era in effetti un efficacissimo antidoto da opporre alla terrificante tecnicizzazione del discorso sulla poesia che dilagava nelle università come nella cultura delle neoavanguardie. Un dettaglio divertente del racconto di Lagazzi, che un lettore giovane del suo libro difficilmente potrebbe apprezzare come merita, è il fatto che il relatore della sua tesi su Bertolucci fosse il professor Luciano Anceschi, il grande studioso di estetica e fenomenologia, più filosofo che critico, passato dall’adesione all’ermetismo (nel 1943 aveva pubblicato la celebre antologia dei Lirici nuovi) all’attiva complicità con le sperimentazioni più ardite della poesia e dell’arte degli anni Sessanta. Rispetto a queste premesse culturali, il viaggio inaugurale di Lagazzi a Casarola si configura come una vera e propria diserzione.
Si badi bene: il professor Anceschi non ha nulla contro Bertolucci, che non è certo il suo poeta preferito ma che di sicuro stima abbastanza per approvare il progetto del giovane Lagazzi – ci mancherebbe. La diserzione e l’eresia non riguardano l’oggetto della ricerca, insomma, ma il fatto che Lagazzi (come lo capisco!) non crede affatto nell’idea di letteratura prevalente ai suoi tempi, vale a dire in un sistema di testi che si autogenera come quella che oggi definiamo un’Intelligenza artificiale. Userò una metafora quasi pedestre nella sua semplicità: se Attilio Bertolucci è una splendida pianta, Lagazzi non intende affatto estrarla dal suo terreno per consegnarla all’ambiente artificiale di una formula critica. Questo terreno da amare e preservare, e soprattutto da raccontare, piaccia o non piaccia la parola, si chiama vita.
Ebbene, i nostri professori (la stragrande maggioranza dei nostri professori) giudicavano la vita poco più di un fastidioso accidente, perché consideravano solo i testi degni dell’attenzione di uno studioso, di un critico. I più estremisti fra loro avevano in uggia anche le date di nascita, per non parlare dei luoghi. Sì, è vero, ammettevano, la gente da qualche parte deve nascere, magari si innamora, si sposa, decide di non mangiare carne, ama il mare, fuma o smette di fumare, soffre di questa o quella infermità… ma tutti questi infiniti e ingarbugliati vettori dell’unicità di un essere umano venivano considerati del tutto irrilevanti. Tutto questo per dire che un ragazzo che senta la necessità, per comprendere il mondo poetico di Bertolucci, di passare le sue estati a Casarola, cercando di vederla con gli occhi del poeta amato senza mai dimenticare di vederla con i suoi, poteva facilmente, nell’agosto del 1973, passare per un pazzo.
In realtà Lagazzi, se solo ne avesse sentito il bisogno, avrebbe potuto evocare una solida e gloriosa tradizione moderna alle sue spalle, che ha i suoi capostipiti nella Vita di Samuel Johnson di James Boswell e nelle Conversazioni con Goethe di Johann-Peter Eckermann (che è un modello molto significativo, nella prospettiva di Lagazzi, anche per la differenza d’età tra il vecchio maestro e il discepolo che pone le domande). Questo genere letterario si fonda sull’esperienza umana dell’amicizia intesa come condivisione di valori e desideri, reciproca abitudine, affinità del carattere, capacità di ammirazione e fedeltà.
Sono gli ingredienti di una forma di scrittura che può toccare esiti altissimi, ben meditati da Lagazzi. Citerò solo quella perla della prosa italiana del Novecento che è Mio sodalizio con De Pisis di Giovanni Comisso. E l’introduzione di Cesare Garboli ai Diari di Antonio Delfini. Credo che una delle risorse maggiori di questo genere sia la possibilità di mostrare, oltre ai protagonisti dell’incontro, anche il tempo che passa, inesorabilmente trasformandoli. Bisogna in qualche modo distaccarsi da tutti i materiali di partenza (diari, lettere, ricordi…) nella direzione di una forma. Lagazzi ne è così consapevole che confessa la sensazione che i «mesi, settimane e giorni» delle estati a Casarola «si inanellino nella memoria in un’unica lunghissima estate». Cos’altro è una forma, in fin dei conti, se non un espediente utile a trasformare la natura frammentaria dell’esperienza in un flusso, trascendendo il calendario e il singolo aneddoto? Dirò di più: Lagazzi è stato così bravo che il lettore ha la sensazione che lui e Bertolucci si siano detti tutto quello che avevano da dire non nello spazio di un’estate, ma di un solo, lunghissimo luminoso pomeriggio di luglio.
Prima di affrontare La casa del poeta, sarà bene anche tener presente che Lagazzi non è solo, per così dire, il Boswell di Bertolucci. Se è vero che ogni libro davvero degno di essere letto possiede un argomento palese e dietro questo un altro meno evidente, che esercita la sua pressione sul primo, allora definirei il tema «segreto» di Lagazzi come la ricerca, anzi meglio l’elezione, di un padre elettivo.
È molto più, questo, un grande tema mistico e iniziatico che psicanalitico. Perché tutti i riti di passaggio ci insegnano che non basta venire al mondo, è necessaria una seconda nascita. E allo stesso modo, abbiamo tutti un padre, ma possiamo anche (senza necessariamente svalutare il primo!) sceglierci un padre. Ricordo bene come il tema emerse in una memorabile presentazione romana della prima edizione di questo libro, uscito da Garzanti nel 2008, negli interventi di Bernardo e Giuseppe Bertolucci che il lettore potrà adesso trovare in appendice. Perché entrambi quei figli naturali di Attilio, con un’affettuosa ironia e forse anche un pizzico di gelosia, dovettero ammettere l’esistenza di quel terzo fratello, che per certi aspetti conosceva il padre anche meglio di loro. Bernardo complicò il tema – da grande conoscitore di tutte le zone d’ombra e le ambiguità del cuore umano – osservando che Attilio non aveva trasmesso né a lui né a Giuseppe la voglia di generare a loro volta dei figli. Ma oggi che i figli di Attilio non ci sono più, posso testimoniare che entrambi sono stati disposti a fare da padri elettivi a tantissime persone, che portano nel cuore il ricordo delle loro case romane come Paolo quella di Casarola.
Di queste eredità, di queste ripetizioni con variazioni è fatta la nostra vita. La presentazione romana, di cui la nuova forma della Casa del poeta rende conto, finì con una cena degna di Rabelais in una vecchia locanda del Ghetto.
Amo pensare che l’ombra di Attilio fosse presente in quel chiassoso banchetto in suo onore. Nel libro di Paolo è conservata la traccia, molto più credibile di qualunque registrazione meccanica, della voce di Attilio, di Bernardo e di Giuseppe, con quel loro accento vagamente aristocratico ma profondamente cordiale e incoraggiante. E anche questo è un merito, tutt’altro che trascurabile, della Casa del poeta.