La Lettura, 9 marzo 2025
Ai Qing inchioda i versi «alla croce del nostro tempo»
A narrare la vita del poeta cinese Ai Qing (1910-1996) ci ha pensato il figlio, l’artista di fama internazionale Ai Weiwei, che nella prima parte del libro 1000 anni di gioie e dolori ci fa entrare in confidenza con quest’uomo che «non pretendeva molto dalla vita, a parte di avere il tempo per leggere e scrivere». La storia di Ai Qing, intrecciata profondamente con quella della Cina del Novecento, è una sorta di epopea. Nato da una famiglia di proprietari terrieri, il futuro poeta fu tuttavia tenuto a balia da una nutrice povera, del popolo. Forse già da quell’antica esperienza deriva l’amore di Ai Qing per la gente semplice, per la fatica degli operai, per il lavoro nelle campagne. È un mondo che il poeta ha conosciuto a fondo e a cui è rimasto sempre legato. Per lui la Cina è questo sconfinato paesaggio rurale, animato dai lavori dei campi. Forse Ai Qing è stato per la Cina ciò che per la Russia è stato Sergej Esenin, poeta che del resto egli lesse e apprezzò quando si trasferì a Parigi e lo scoprì in traduzione francese.
Anche la campagna del poeta cinese, come quella russa di Esenin, è un pugno di valori e di riti, un germe di vita. E qualcosa di epico, di solenne, di sacrale si agita nel fondo del canto di Ai Qing, anche quando si piega «sotto la rude morsa del secolo» (si vedano ora, dopo le traduzioni di Anna Bujatti per Scheiwiller e Interlinea, le Poesie scelte, selezione di Ai Weiwei, traduzione di Federico Picerni, Damocle Edizioni). Basta pensare alla celebrazione reiterata del sorgere del sole e ai suoi significati vivificanti: si prenda ad esempio la famosa Verso il sole, scritta nel 1938, nel periodo più fervido della sua storia poetica. In questo lungo componimento, diviso in brani, il poeta ricorda anche la sua conoscenza della cultura occidentale, attinta proprio a Parigi, nella sua permanenza di tre anni a partire dal 1929. Scrive tra l’altro: «Whitman/ nel sole trovò l’illuminazione/ a scrivere versi vasti quanto l’oceano/ con fiato vasto quanto l’oceano// Van Gogh/ nel sole trovò l’illuminazione/ per dipingere girasoli/ e contadini a zappar la terra/ con pennelli ardenti/ intinti in ardenti colori». Dopo il soggiorno francese, iniziato quando aveva poco più di 18 anni, al suo ritorno in Cina vive la sua vicenda di poeta in lotta con il proprio tempo.
Contribuendo alla guerra civile dei comunisti contro i nazionalisti e alla guerra di liberazione contro il Giappone, il poeta non trovò tuttavia conforto e riconoscimento nella cultura ufficiale, se non per brevi periodi. Dopo essere stato incarcerato per tre anni a partire dal 1932 per volontà dei nazionalisti, conobbe la durezza del maoismo (lui che pure a Yan’an era stato vicino a Mao Zedong) e fu confinato dal 1957 fino circa alla fine degli anni Settanta in località remote, prima della riabilitazione nel 1979. Sono anche gli anni di un sostanziale silenzio poetico. Molte discontinuità e fratture hanno segnato l’esperienza di questo poeta cinese e della sua generazione: nel 1911 la fine dell’Impero. Poi l’abbandono in poesia della lingua classica, letteraria, a favore di quella usuale, una sorta di rivoluzione. Da ultimo le guerre che dilacerarono la Cina e infine la nascita della Repubblica Popolare (1949), che presto degenerò in autoritarismo e in controllo delle coscienze.
La poesia di Ai Qing ha attraversato queste tensioni e ne mostra i segni, le ustioni. Poeta originariamente della realtà naturale (si veda un testo esemplare come Crepuscolo del 1938), egli ha dovuto fare i conti con le sollecitazioni collettivistiche, con le lotte di popolo, con le aspirazioni verso la costituzione di uno Stato socialista. Ed ecco che nel lungo testo intitolato La fiaccola (1940), che racconta una manifestazione di propaganda, si fa strada l’idea di una rimozione dell’individuo. Il testo si svolge attraverso battute di dialogo, quasi teatrali: «Tang Ni, non dovresti essere affamata di felicità/ nel momento in cui tutti soffrono/ la felicità individuale è una vergogna, Tang Ni».
Ecco: Ai Qing, anche prima degli anni della gogna maoista e dell’esilio, ha sopportato la temperie di un’epoca contraria alla poesia, segretamente in lotta con essa. In una poesia del 1937, centrale nel suo percorso (Sorriso), annota: «Possiamo forse noi/ sfuggire alla sorte d’essere inchiodati/ alla croce del nostro tempo?/ E la pena inflitta da questa croce/ nient’affatto impallidisce/ dinanzi al dolore del Nazareno». C’è dunque nell’accettare la mola inarrestabile del secolo una disposizione al martirio. Citiamo ancora da Sorriso: «Io non ho fede negli archeologi —// quando, tra migliaia di anni,/ su coste senza traccia d’uomo,/ su rovine un tempo fastose,/ rinverranno un osso secco/ – il mio osso,/ come potranno sapere che quest’osso/ attraversò l’ardenti fiamme del ventesimo secolo?// E come potranno, tra i suoi strati,/ rinvenire/ le lacrime del martire/ vessato da infiniti tormenti?». Ai Qing sta a segno di contraddizione, ci ricorda la dolorosa odissea di una poesia che volle e non poté essere in armonia con il proprio tempo, internamente divisa eppure capace di resistenza.