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 2025  marzo 09 Domenica calendario

Cinquemila anni per diventare l’India

Preoccupati per il futuro dell’India? Non molto, probabilmente. Nonostante sia sulla strada di diventare una potenza considerevole, tutto sommato se ne parla poco. Più ancora che per geografia, sembra distante nella cultura, nella filosofia, persino nei colori. Così diversa. Non compresa, da noi occidentali, per quel che è e per quello che è stata. Tra l’altro, di questi tempi ci sono altre zone del pianeta a tenerci svegli la notte. Eppure, ci sono ragioni serie e affascinanti per occuparsene: in fondo, l’India è una delle grandi anime del mondo.
Per fortuna sono appena usciti in Italia due libri che possono avvicinarci al mistero nel quale vivono più di un miliardo e 400 milioni di persone. La notizia impegnativa è che, per essere svelato, occorre iniziare da tre millenni prima di Cristo. In altri termini, l’India di Narendra Modi, di oggi, si spiega con cinquemila anni di storia, di filosofia, di letteratura, di conflitti. Anche la domanda che corre da qualche anno, se cioè il Paese stia tradendo il suo spirito democratico, troverà, se la troverà, risposta nel passato.
Ma prima dei due nuovi libri, Amartya Sen. In un saggio del 2005 – uscito in Italia come L’altra India. La tradizione razionalista e scettica alla radice della cultura indiana, Mondadori – il premio Nobel aveva già sviluppato per il pubblico occidentale la lunga storia della tradizione argomentativa indiana e la sua importanza in epoca moderna. Aveva però notato che una parte politica, culturale e religiosa del Paese stava interpretando i Veda, i testi sacri del secondo millennio precristiano, e la un po’ più giovane epica Ramayana come «una visione strettamente induista», esclusiva. Vent’anni fa, Sen non poteva sapere che gli attivisti hindutva di allora – nazionalisti che puntano all’egemonia indù nel continente – sarebbero andati al potere con il primo ministro Modi e il suo Bharatiya Janata Party (Bjp). Altri, invece, vedevano la storia antica con scetticismo, un’invasione del passato nell’India secolarizzata: come minimo inutile ma forse pericolosa. A differenza di entrambi, Sen ritiene che gli scritti antichi abbiano avuto un’influenza profonda sulla letteratura e sul pensiero indiano: tra inni e invocazioni religiose, hanno raccontato storie e posto questioni filosofiche. Furono alla base di dibattiti, di dispute intellettuali, di confronti. «La rilevanza contemporanea della tradizione dialogica e dell’accettazione dell’eterodossia è difficile da esagerare», scrive Sen. Una radice di democrazia originale indiana, non strettamente induista ma pluralista, da ricordare agli indiani come agli occidentali.
I due libri ora pubblicati in Italia sono diversi tra loro ma in alcune parti ruotano attorno all’interpretazione che dà Sen del grande e antico Paese dell’Asia del Sud: uno è legato all’attualità, l’altro al passato e alla filosofia. Il primo l’ha realizzato Matteo Miavaldi, un giornalista che scrive e produce podcast per diversi media e che in quel Paese vive da anni: si intitola Un’altra idea dell’India. Viaggio nelle pieghe del subcontinente (Add editore). Il secondo è un’opera del filosofo tedesco Wilhelm Halbfass (1940-2000), grande studioso di indologia: Europa e India. Storia di un incontro culturale (Carocci), pubblicato per la prima volta in Germania nel 1981 e poi aggiornato per edizioni in altre lingue.
Miavaldi racconta con precisione e in modo brillante molti aspetti della storia recente e della cronaca politica e sociale del Paese. Naturalmente parla parecchio del primo ministro Modi e, a un certo punto, si sofferma sull’ideologia hindutva che ne ha sostenuto la carriera e che guida la sua azione politica. Alla fine dell’Ottocento, il monaco Swami Vivekananda promuove in tutto il Raj britannico l’idea che l’induismo non abbia solo una valenza religiosa ma compenetri la scienza, la cultura, l’identità con una propensione universalistica. Alla fine del Diciannovesimo secolo, l’India non è ancora un’entità politica ma è già formata, secondo Vivekananda, da chi appartiene «a una religione che ha insegnato al mondo sia la tolleranza sia l’accettazione universale»: tollerante sì, ma «madre di tutte le religioni», moralmente superiore. Chiosa Miavaldi: «La tesi posiziona l’India in cima alla comunità interazionale: ancora prima di esistere come nazione, è dispensatrice di lezioni fondamentali per il raggiungimento della pace». Per chiarire: «L’India hindu era già democratica prima della democrazia, era pacifica prima del pacifismo, era tollerante prima della tolleranza e da millenni mostra al mondo “come si fa”». Secondo questa visione, l’India è il vishvaguru, il guru globale interpretato alla perfezione da Modi. Nazionalismo induista più che «tradizione dialogica».
Halbfass è invece uno studioso che ha indagato i «presupposti storici ed ermeneutici del “dialogo” filosofico tra India ed Europa». Non intende discutere «la situazione attuale e le sue possibilità future». Analizza il ruolo dell’India nel pensiero filosofico europeo sin dall’antichità e come la filosofia europea sia stata ricevuta dal pensiero indiano; in più, si interroga su come gli indiani tradizionali e moderni abbiano considerato sé stessi. Gran lavoro.
Nota che Georg Wilhelm Friedrich Hegel «ha descritto l’India come una terra che ha esercitato la sua influenza storico-mondiale in modo passivo, facendosi cercare». È il Paese delle meraviglie che ha attratto per le sue ricchezze e ancora di più per la sua «sapienza». È ancora giusto vederla in questo modo, due secoli dopo? Forse. L’analisi storica e filosofica di Halbfass è profonda, nello studio dei rapporti delle civiltà antiche con quella indiana, dai Greci ai Persiani, dagli Egizi ai Romani. «I viaggi in India e il debito nei confronti della sapienza bramhanica sono oggi attribuiti a numerosi fondatori e pilastri del pensiero greco, come Platone, Democrito, Ferecide di Siro e, molto spesso, Pitagora». Due modi di intendere il dibattito e il confronto che si sono incontrati, in qualche misura influenzati, ma sono arrivati a un’idea di democrazia simile e diversa allo stesso tempo.
Halbfass cita lungamente al-Biruni, «uno dei più grandi studiosi di sempre», vissuto a cavallo del primo cambio di millennio dell’era cristiana in Asia centrale: matematico, filosofo, storico, linguista, antropologo, considerato il fondatore dell’indologia. Interessante: al-Biruni – nota Halbfass – «considera i greci altrettanto lontani dal monoteismo islamico quanto gli indiani e, in questo senso, sostanzialmente paragonabili a loro». Il filosofo tedesco è troppo serio e profondo per sostenere che ci sia una relazione tra l’avere più divinità nel proprio orizzonte religioso e la tendenza alla speculazione filosofica e al dibattito, in fondo alla democrazia. In compenso nota, con al-Biruni, che gli indiani hanno teso «a isolarsi e a sopravvalutarsi», anche se non sempre.
Il libro di Halbfass – più di 600 pagine comprese le note – è un teso erudito che tocca la relazione tra il pensiero indiano e quello occidentale nelle diverse fasi della storia e nelle altrettanto diverse interpretazioni, non solo di Hegel ma anche di Arthur Schopenhauer e Friedrich Wilhelm Joseph Schelling: i tre, insieme, «incarnano quello che è considerato ancora oggi il momento più memorabile nella storia delle risposte filosofiche europee all’India». Schelling, in particolare, sostiene che «in India non c’è una sola religione, ma piuttosto religioni e mitologie diverse». Ciò che altrove è diviso tra diverse nazioni e tradizioni – commenta Halbfass – «in India è diviso solo tra diverse parti o “organi” di un’unica nazione, di un’unica tradizione». La diversità e la dialettica al cuore del pensiero.
Benché Hegel abbia «occasionalmente espresso nei suoi ultimi anni» la propensione a inserire la filosofia indiana nella storia della filosofia mondiale, il pensiero dominante dell’Ottocento e di gran parte del Novecento «ha esplicitamente escluso l’Oriente, e quindi l’India, dalla documentazione storica della filosofia», nota Halbfass. Forse è questa una delle ragioni per le quali oggi fatichiamo a comprendere il Subcontinente e lo interpretiamo spesso negli aspetti più superficiali e folcloristici.
Su questa idea confusa che gli occidentali hanno dell’India scrive molto Miavaldi. Per dire di come abbiano trasformato lo yoga a uso proprio, piuttosto slegato dalla sua profondità. Per raccontare la fascinazione degli hippie per gli ashram e per la meditazione, pur tra droghe e sesso libero. Per relativizzare l’attrazione dei Beatles per l’India, esclusa quella genuina di George Harrison, durante i «sei mesi» di trip mistico. Per mettere in discussione alcune parti del mito del Mahatma Gandhi in Occidente. Un insieme di realtà quasi sempre lette, a ovest, in modo superficiale mentre sono spesso frutto di un’evoluzione millenaria.
Miavaldi parla di molto altro. Della politica interna ed estera nell’era di Modi, dell’economia in crescita, dei supermiliardari Ambani e Adani molto vicini al primo ministro, della competizione tra Delhi e Pechino, del sistema delle caste ancora vivo anche se abolito dalla costituzione adottata del 1949. A proposito di caste, Miavaldi dedica un omaggio a B.R. Ambedkar, considerato il padre della costituzione indiana, leader della lotta per l’emancipazione dei dalit, gli intoccabili: una figura, anche questa, da noi poco conosciuta ma di grande rilevanza nel perenne e aspro dibattito del subcontinente. L’India è complicata. Ma – dice Hegel – vuole essere cercata: ha molto da dire.