Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  marzo 09 Domenica calendario

La patologia del vittimismo

Pascal Bruckner non ha mai amato i piagnistei, sin dal celebre saggio Il singhiozzo dell’uomo bianco con il quale all’inizio degli anni Ottanta denunciava gli eterni sensi di colpa dell’Occidente, troppo incline ad auto-fustigarsi per costruire una relazione sana e davvero rispettosa con il Sud del mondo. Oggi Bruckner pubblica in Italia, sempre per Guanda, un altro libro acuto e in molti passaggi anche divertente su un fenomeno culturale e politico che dilaga in tutto il mondo: Povero me! Perché le vittime sono i nuovi eroi, in cui critica la preferenza contemporanea e assolutamente bipartisan per chi ha subito o pensa di avere subito un torto, un trauma, un’ingiustizia.
La vittima è idolatrata sempre, per il solo fatto di soffrire, e le cause del suo dolore in fondo contano poco: possono essere politiche, psicologiche o biologiche; chi si lamenta può essere abbandonato dallo Stato, dalla fidanzata o dalla salute, in ogni caso godrà di un credito inestimabile in società. Bruckner non se la prende con il nobile sentimento umano della compassione per chi soffre, ma con il compiacimento e il crogiolarsi nella sofferenza come se fosse essa stessa un valore, una qualità, un alibi assoluto capace di definire e glorificare una vita. La vittima è il nuovo eroe, appunto.
Nella prima pagina del libro lei racconta la proposta venuta in mente all’allora presidente François Hollande, che qualche settimana dopo il massacro del Bataclan nel 2015 pensò di conferire la Legion d’onore postuma alle 130 vittime degli attentati del 13 novembre. Perché questo «Pantheon capovolto» è così significativo per lei?
«Perché le persone uccise dentro al Bataclan o nelle strade vicine la sera del 13 novembre 2015 hanno tutta la nostra compassione, ovviamente. Ma che c’entra dare loro la Legion d’onore? Quella è un’onorificenza che di solito si attribuisce agli eroi, a qualcuno che combatte, non a chi viene abbattuto. Quegli innocenti falciati dai terroristi jihadisti hanno avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, e certamente meritano l’omaggio della nazione. Ma in un altro modo. La Legion d’onore non è mai stata un risarcimento per un lutto, ma la ricompensa di un merito. Solo che la vittima è ormai diventata il nuovo eroe, con un capovolgimento anche semantico notevole».
Il linguaggio rivela un’attitudine profonda?
«Mi pare di sì, mi hanno molto impressionato poi le parole scelte dalla sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, per commemorare Arnaud Beltrame, il gendarme che il 24 marzo 2018 a Carcassonne si sostituì volontariamente a un ostaggio durante l’attentato islamista al supermercato e finì ucciso. Hidalgo esaltò Beltrame come “vittima del suo eroismo”, sorta di ossimoro che rivelava la convinzione di fondo, anche inconsapevole: il merito principale di Beltrame era di essere stato ucciso, di essere vittima, più ancora di avere coraggiosamente salvato la vita di un cliente del supermercato. Questo è il punto centrale».
Nel libro lei cerca di individuare le cause di quest’atteggiamento intellettuale, e va talmente indietro nel tempo da risalire alla nascita del cristianesimo. Questo clima culturale contemporaneo trae le origini dal fatto che Dio ha preso le parti degli umili, degli oppressi, fino a morire sulla croce?
«Restiamo una società profondamente cristiana. Nel bene e nel male siamo eredi della rivoluzione di Cristo che offre la sua sofferenza come patria comune a tutti gli umiliati e porta loro il conforto della croce. Negli ultimi due millenni questo ha permesso la tutela dei diritti delle donne, dei bambini, degli schiavi. Benissimo. Ma su questa base nobile si è innestata ormai la strategia secondaria del vittimismo, a tutti i livelli, sia personale sia degli Stati. Suprematisti bianchi o neri, virilisti rancorosi, islamisti, neofemministe rabbiose, ecologisti inferociti, slavofili revanscisti, neo-ottomani vendicativi: ognuno sfrutta una tragedia passata per incolpare i propri nemici».
In Occidente questo prende la forma di una contraddizione tra il potere assoluto dell’edonismo e l’idolatria della sofferenza.
«È così, è paradossale. Vale a dire che le nostre società sono infedeli ai loro messaggi. Dietro l’edonismo dichiarato, si deve sentire una sorta di dolorismo sotterraneo. Il vittimismo è una patologia del riconoscimento, il desiderio di essere identificati senza il dovere di presentarsi. Alla fine, è come se non riuscissimo ad accettare l’aspetto duro e tragico dell’esistenza, e la ricerca della felicità si trasforma in ossessione per la tristezza. Le avversità sono attribuite alla malvagità della società, alla crudeltà del capitalismo. Va sempre trovato un capro espiatorio per la nostra sfortuna. Noi europei e americani del XXI secolo sembriamo affetti dalla sindrome della principessa sul pisello, che non riusciva a dormire a causa della biglia sotto al materasso. Più la medicina aumenta la qualità delle nostre vite, più la nostra suscettibilità e emotività aumentano».
Un aspetto interessante della sua denuncia è che il problema non è limitato a parti della società europea contemporanea, occidentale, magari alla sensibilità «woke». Non si tratta solo della preferenza per la lacrima che riempie i media di testimonianze tragiche o anche di racconti di normali difficoltà esistenziali spacciate per traumi insormontabili. La lagna è al cuore dell’ideologia di un apparente uomo forte come Vladimir Putin, che ricorre alla mitologia dei caduti sovietici nella Seconda guerra mondiale per giustificare i suoi massacri in Ucraina, e si sente in dovere di gonfiare le cifre: 20 milioni di vittime del nazismo non sono abbastanza, devono diventare 40. Anche per Putin il sacrificio, il vittimismo è fondamentale.
«Slobodan Milosevic e le guerre nei Balcani sono stati la prova generale. Anche i nazionalisti serbi erano certi che il mondo intero ce l’avesse con loro e fosse intenzionato a distruggere la Santa Serbia, i loro soprusi erano motivati da un profondo vittimismo. E oggi il Cremlino si arroga il ruolo di vincitore del Terzo Reich, sorvola sulla complicità di Stalin con Hitler durata più di un anno, ricorda le sue decine di milioni di morti nella Seconda guerra mondiale e dice in sostanza che tutto è dovuto alla Russia, non le si può rifiutare nulla viste le avversità che ha sopportato, e quindi la sua guerra è giustificata».
Anche il presidente americano Donald Trump gioca a fare la vittima?
«Lui è un woke al contrario. Anzi, un woke supremo, ha ripreso la retorica vittimistica dei woke estendendola a tutto il popolo americano.
Il presidente interpreta il vittimismo dell’americano bianco comune che soffre perché vittima dell’élite globalizzata di Washington. Le élite accademiche diffondono l’ideologia mortifera delle minoranze, ma secondo Trump l’America è la vittima del mondo intero. È un grande Paese che si è sacrificato per salvare il mondo e che il mondo sta saccheggiando, da qui la volontà di imporre i dazi. Trump stesso si vede come un inviato di Dio, una sorta di emissario cristico».
Il Paese più ricco del mondo, il più prospero, il più benestante, si pone come vittima delle altre nazioni.
«È un’aberrazione, ma funziona. Chiunque incontra difficoltà incolpa gli altri. Trump per me è la migliore illustrazione dell’ideologia vittimistica e della sua assoluta falsità. Un woke dell’americano bianco che si sente impoverito e dice di volersi riprendere il Paese, perché secondo lui qualcuno glielo ha rubato. Qualcuno pensava che Trump potesse essere la risposta al vittimismo wokista, ma al contrario, sta estendendo il campo del vittimismo. Ha esteso la lamentela delle minoranze a tutto il popolo americano».
Il vittimismo contamina anche le arti e la letteratura?
«Oggi bisogna essere molto sofferenti per vendere, la sofferenza è un genere letterario. Anche se bisogna fare attenzione: devi essere vittima ma non totalmente, malato ma non troppo, perché se racconti il tuo cancro e diventi vittima assoluta morendo poi non puoi trarne i vantaggi. In quel caso bisogna essere vittime, ma fino a un certo punto».
Nel libro c’è una critica a Ernaux.
«Uno dei meriti della cultura è di rappresentare i deboli e gli oppressi, ma su questa conquista essenzialmente portata dal cristianesimo si è innestata una vittimizzazione che consiste nell’appropriarsi della grandezza o della nobiltà della vittima. Annie Ernaux è in lotta contro il determinismo sociale, si propone come una transfuga di classe, dice di parlare a nome degli umili e rivendica il desiderio di “vendicare la sua razza”. Ma non penso che sia una vittima, penso il contrario. Ciò che è molto curioso di lei è che è multimilionaria, è una scrittrice molto brava, ho letto quasi tutti i suoi libri, e quindi sono contento per lei, ma devo dire che vive questo privilegio del Nobel, che è il sogno di quasi tutti gli scrittori, come una maledizione, come se fosse un chiodo in più sulla sua difficile condizione. Non bisogna esagerare. Nonostante l’innegabile talento e il grande successo ha finito per abbandonarsi all’amarezza».
È impossibile affrancarsi dalla condizione di vittime, vera o presunta?
«No, per fortuna. Quando l’attrice Adèle Haenel ha protestato per il premio César a Roman Polanski, dicendo che questo equivaleva a sputare in faccia a tutte le vittime di violenza sessuale, le ha risposto Samantha Geimer, violentata da Polanski all’età di tredici anni e mezzo. Geimer ha detto che in realtà chiedere alle donne di sopportare non solo il peso dell’aggressione subita ma anche quello dell’indignazione di tutti per l’eternità, equivale a sputare in faccia alle donne che si sono ristabilite e sono riuscite a dedicarsi ad altro. Geimer rivendica il diritto di una vittima di lasciarsi alle spalle le proprie ferite e vivere bene, se ci riesce, senza rimanere associata in eterno allo status di sofferente. Poi cito il caso di Neige Sinno, violentata dal patrigno sin dall’età di sette anni, che ha scritto il bellissimo libro Triste Tigre (Neri Pozza) e rivendica il fatto di essere comunque salva. Esistono due filosofie della sventura: una è fonte di prostrazione, l’altra di rinascita. Lo spirito del tempo privilegia la prima, purtroppo. Ma dobbiamo imparare a opporci alla seduzione del panico».