La Lettura, 9 marzo 2025
La via italiana all’informatica
La storia inizia con una competizione tra Milano, Roma e Pisa. Siamo negli anni Cinquanta del secolo scorso e le ambizioni sono grandi, alimentate dallo spirito del boom economico. Protagonisti sono tre personaggi consapevoli delle innovazioni e delle possibilità offerte dagli «elaboratori elettronici» sviluppati negli Stati Uniti come eredità tecnologica della Seconda guerra mondiale. Vogliono che anche l’Italia entri in gioco. La sfida è disporre di un grande computer utile a tutti: alla ricerca e all’industria.
Per arrivare in fretta al risultato con una macchina pronta all’uso Luigi Dadda, professore al Politecnico di Milano, vola negli Stati Uniti e con i fondi del Piano Marshall compra un calcolatore. Nel 1954 entra in funzione al Centro di calcoli numerici dell’ateneo il primo calcolatore elettronico a programma registrato (CRC102A) attivo in Europa.
All’Università di Roma (La Sapienza) il matematico Mauro Picone insegue lo stesso obiettivo, ammirato dalle notizie sull’Ibm. Vorrebbe costruirne uno, ma le resistenze sono schiaccianti. Alla fine, nel 1955 installa un computer (battezzato Finac) acquistato dall’inglese Ferranti.
All’Università di Pisa hanno idee diverse e soprattutto non sono disposti ad abbandonare l’obiettivo di costruire una macchina italiana. Hanno a disposizione 150 milioni di lire, raccolti dai comuni di Pisa, Livorno e Lucca, in origine destinati a un’altra gara accesa in quegli anni per la realizzazione del primo acceleratore di particelle (in questo caso, però, vince Roma, dove pesa la presenza di Edoardo Amaldi, collaboratore di Enrico Fermi). I pisani si ritrovano così con una significativa disponibilità economica ma senza un obiettivo chiaro di investimento. È qui che arriva un suggerimento importante. Nell’estate del 1954 sbarca dagli Stati Uniti Enrico Fermi per partecipare alla scuola di fisica di Varenna, sul lago di Como. Nell’occasione, il rettore dell’Università di Pisa, Enrico Avanzi, gli chiede un suggerimento sull’utilizzo dei fondi. Fermi risponde con una lettera in cui scrive che «tra le varie possibilità, quella di costruire una macchina calcolatrice elettronica mi è sembrata di gran lunga la migliore. Essa costituirebbe un mezzo di ricerca di cui si avvantaggerebbero in modo, oggi quasi inestimabile, tutte le scienze e tutti gli indirizzi di ricerca». Il rettore accetta l’autorevole parere e nel giro di qualche mese costituisce una commissione formata dal fisico Marcello Conversi, dall’ingegnere Ugo Tiberio e dal matematico Sandro Faedo, preside della Facoltà di Scienze.
«Siamo nel 1954, l’anno zero dell’informatica italiana», dice Angelo Guerraggio, storico della matematica, docente all’Università dell’Insubria e direttore del Centro Pristem all’Università Bocconi, autore del libro Alessandro Faedo. Una vita per la matematica pubblicato dall’Accademia Olimpica di Vicenza.
Faedo (1913-2001) ha origini vicentine, è nato a Chiampo, si forma come assistente del matematico Federico Enriques all’Università di Roma e in seguito diventa rettore dell’Università di Pisa e presidente del Consiglio nazionale delle ricerche. In questo scenario di incarichi si afferma come il protagonista dello sviluppo dell’informatica italiana, un’epopea raccontata in questo libro uscito nel 2024 con ricchezza di dettagli e appassionata partecipazione da Guerraggio.
Fermi, nei contatti intercorsi, riferisce a Faedo degli interessi dell’Olivetti (di cui ha visitato gli stabilimenti nel 1949). Tre anni dopo la società di Ivrea non a caso apre un laboratorio nel Connecticut diretto da Dino, fratello di Adriano. L’occasione dei fondi in Toscana spinge l’azienda a collaborare al progetto pisano creando a Barbaricina, alla periferia occidentale di Pisa, un centro nel quale mette a disposizione a spese proprie due ingegneri e due tecnici guidati dal geniale fisico e ingegnere Mario Tchou. Insieme, inseguono l’obiettivo di un calcolatore per il mondo scientifico ma anche per l’industria e il mercato. È un’intesa mirabile per quegli anni, di cui Faedo è il padre, convinto che i due mondi debbano convivere per la crescita del Paese. Così nel 1957 nasce la «Calcolatrice Elettronica Pisana», famosa con la sigla Cep, primo elaboratore costruito in Italia. L’anno successivo è pronta anche Elea 9003, macchina Olivetti dotata della nuova tecnologia americana dei transistor e presentata alla Fiera di Milano nel 1959. «Pisa taglia il traguardo tre-quattro anni dopo Milano e Roma – aggiunge Guerraggio – ma ha dalla sua un lungimirante investimento sul capitale umano chiamato alla progettazione e alla costruzione di una macchina originale».
Purtroppo la storia dei grandi computer in Olivetti non avrà un lieto fine perché scompaiono i due visionari cervelli guida: Tchou in un incidente d’auto, Adriano Olivetti per infarto durante un viaggio. Inoltre, la grave situazione economica dell’azienda completa l’esclusione dal mondo dell’informatica.
Ma la storia pisana continua grazie a Faedo. Infatti, tramontata la società italiana tesse un filo con l’Ibm americana. Vola negli Usa per incontrare Eugenio Fubini, vecchio compagno dell’Università di Roma emigrato negli Usa, vicepresidente dell’Ibm, consulente dei presidenti John Kennedy e Lyndon Johnson. Nell’incontro, convince Fubini a regalare alla ricerca europea sprovvista di risorse tre grandi computer 7090. Uno andrà in Gran Bretagna, un altro nel nord Europa, il terzo a Pisa. Grazie al nuovo potente strumento Faedo organizza, e ne diventa direttore, il Cnuce (Centro nazionale universitario di calcolo elettronico) inaugurato dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat nel 1965. Le attività del nuovo centro spaziano in ambiti diversi della scienza, ma si formano persino gruppi di ricerca in linguistica computazionale e musicologia.
L’ultima grande impresa di Faedo è la nascita a Pisa del corso di laurea in Scienze dell’informazione: prima laurea in Informatica in Italia. «L’avevo concepita da tempo – scrive Faedo – ma il comitato di matematica del Cnr si opponeva dicendo che non avremmo avuto studenti. Si presentarono 1.500 candidati e dovemmo effettuare una selezione».
Poi arriva la nomina a presidente del Cnr, dove persegue sempre l’idea di unire ricerca pubblica e privata istituendo i «progetti finalizzati» in collaborazione con le industrie e incentivando studi d’avanguardia altrimenti irraggiungibili. L’iniziativa rimarrà un fiore all’occhiello della più grande istituzione di ricerca nazionale.