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 2025  marzo 09 Domenica calendario

Intervista a Vittorio Sgarbi

Le righe che leggerete sono frutto di più incontri con Vittorio Sgarbi: una lunga chiacchierata nella sua casa romana, qualche visita successiva in clinica dove è stato ricoverato per una forte depressione, il ritorno a casa, luogo preferito alla «gabbia ospedaliera» e lo spettacolo cui ho assistito, qualche settimana fa, al Teatro Olimpico nel quale Sgarbi portava in scena il suo Arte e fascismo (ricavato dal libro edito dalla Nave di Teseo e frutto di una mostra al Mart di Rovereto). Sul palco per un’ora e mezzo il critico e storico d’arte ha incontrato il suo pubblico.
Era lui, non era lui? Invecchiato, certamente, con voce grave, lenta e impersonale accompagnava le immagini spiegandone il senso. Una lezione dai toni malinconici, come se l’esito arrivasse dal profondo di una psiche messa a dura prova da alcuni fatti di cronaca giudiziaria. Una lezione bella, che ha commosso molti tra i presenti che hanno avvertito lo sforzo del suo star lì nonostante tutto, e misurato la distanza dall’uomo esuberante di un tempo che abbiamo imparato a conoscere, ad ammirare e detestare. Sgarbi ha anche di recente pubblicato Natività, non so se l’arte sia la cosa di cui si occupa meglio, ma di certo ha interpretato molti ruoli: deputato, sindaco, conferenziere, polemista, critico e storico. Volto televisivo rissoso, tra i più querelati, ma dotato di una certa sorprendente mitezza quando in privato mi accoglie per un dialogo a tutto campo.
Dell’enfant prodige, del bambino che è sempre stato – ribelle, imprevedibile, mentalmente bulimico – sembra restare ben poco. Mentre divorava la vita, la vita lo stava inghiottendo. Natività (edito da La nave di Teseo) è un libro bello, di una bellezza splendente che si addice all’arte italiana. Un po’ in contrasto con l’opacità del suo attuale stato d’animo, provocato da una forma di malinconia incontrastata. Di stelle che si sono spente. Di ferite immedicabili sull’anima di quest’uomo intelligentissimo e fragile. Esposto, come un personaggio faustiano, ai demoni del divenire.
Come stai?
«Così, come mi vedi».Ti vedo smagrito.
«Ho perso parecchi chili. Faccio fatica in tutto. Riesco a tratti ancora a lavorare. Ho sempre dormito poco. Ora passo molto tempo a letto».
Ho letto il tuo ultimo libro, “Natività”. Ha un sottotitolo: Madre e figlio nell’arte».
«È una relazione che spesso ha toccato la mia mente».
Ma c’è anche madre e figlio nella vita. La tua vita.
«Mia madre aveva un temperamento simile al mio, pieno di slanci e di entusiasmo. Vedeva in me quello cui destinare una serie di valori e visioni. In qualche modo mi immaginava come un prolungamento della sua mente. Una creatura tanto fisica quanto del pensiero. E poi è stata la mia principale collaboratrice, qualunque cosa io facessi, relativa alle opere d’arte,alla scrittura, alle mostre, alle collezioni, lei era parte attiva di questo processo. Processo che mio padre guardava come uno spettatore, davanti a un teatro dove accadevano cose pensate da me e in parte realizzate con mia madre».
Era un uomo diverso da voi.
«Misurato, pieno di un ordine del suo mondo. Mia madre era smisurata, io corrispondevo all’espansione di questa sua visione anomala delle cose. È stato un rapporto quasi di identificazione, come se io fossi permanentemente dentro di lei. Mio padre non era emotivamente interessato alle nostre cose. Lo era sul piano razionale».Forse emotivamente subiva la tua irruenza.
«Aveva uno spiccato senso della solitudine. Certe volte, in fuga dal lavoro, andava a pescare sul fiume. In questo era l’opposto di mia madre, che non aveva nessuna voglia di stare sola. Rina era piena di una curiosità per la vita, per i luoghi più diversi grazie a cui forzava a volte l’esilio in cui si era confinata con mio padre nel mondo chiuso di Ro Ferrarese. Non credo che lui ci tenesse ad essere coinvolto».
Com’eri da bambino?
«Irrequieto e divertito per quello che contribuivo a fare accadere. Un carattere che si è proiettato oltre la fase adolescenziale fino a quella adulta. C’è un episodio che mi riguarda, al tempo in cui studiavo al collegio dei salesiani. Lessi di nascosto Senilità di Italo Svevo, un romanzo considerato proibito. Un prete lo vide sul mio banco e lo segnalò al preside».
Cosa accadde?
«Furono avvertiti i miei genitori che invece di difendermi difesero le ragioni del prete. Senza capire che nella mia scelta di leggere un libro proibito c’era il desiderio di creare un’autonomia di giudizio rispetto alle cose. E invece fu visto come un crimine. Poi il prete si confuse».
Cioè?
«Disse, rivolgendosi ai miei, “vostro figlio deve leggere libri formativi”. “E quali?” Chiese mio padre. Rispose “per esempio Il giovane Werther di Goethe”. Ma anche quel libro era proibito!».
Il proibito ti ha sempre messo di buon umore.«Non me lo sono mai fatto mancare».
Quali libri sono stati formativi nella tua adolescenza?
«Alla mia formazione letteraria ha contribuito in modo determinante mio zio Bruno Cavallini. Mi regalò I fiori del male. In chiesa invece di leggere il catechismo leggevo Baudelaire. Era la mia risposta ai preti visti da me come simbolo del potere».
Quando scopristi la tua passione per l’arte?
«Quando incontrai a Bologna Francesco Arcangeli».
Fu il primo allievo di Longhi.
«Il più anziano. E prediletto. Vedevo in questo professore così poco accademico il senso dell’avventura, della provocazione, della rivolta. Arcangeli è quello che mi ha indotto a muovermi dalla letteratura verso l’arte».
Molti storici dell’arte ti hanno visto come un enfant prodige, salvo poi prendere le distanze da te.
«Non capirono che ci si poteva occupare di cultura andando in televisione e parlando non solo di attualità ma anche di opere d’arte».
La televisione ha svelato la parte irruenta provocatoria e perfino più sgradevole di te.
«Non c’è dubbio. Non era una recita a teatro ma la rappresentazione del mio temperamento. Questo è stato il senso della televisione per me».
Questo tuo lato ti piace?
«Oggi lo vedrei come una parte di me distante, come un calore di fiamma lontano. Oggi guardo le cose senza il desiderio di essere coinvolto. Senza rappresentare una parte».
Eri prigioniero della tua immagine.
«Penso di sì».
La gente che ti guardava voleva il “sangue” e tu eri lì a farlo scorrere.
«Era una realtà profonda che diventava immagine.
Oggi, nel ripensare a certe cose di allora è come se vedessi un altro me».
Tu, che hai sempre difeso la bellezza, era come se la deformassi.
«La bellezza è qualcosa che dobbiamo tenere dentro rispetto a quello che manifestiamo fuori».
Deformi furono le dichiarazioni di odio pubblico, ad esempio l’augurare a Federico Zeri la morte.
«Si fanno spesso dichiarazioni di amore puramente formali e si tiene l’odio dentro se stessi. Io ho fatto dichiarazioni d’odio nascondendo l’amore».
L’impressione che davi era che in te fosse saltato il confine tra pubblico e privato, tra lecito e llecito, tra normale e proibito. Una recita pubblica permanente.
«Esattamente».
Hai perfino esibito il tuo corpo in foto postoperatorie di un tuo intervento al cuore. La malattia come condivisione.
«La malattia in quel caso corrispondeva alla sensazione improvvisa di un malessere. Sapevo che se non avessi deciso di andare in ospedale sarei morto entro poco per un’ischemia che, per fortuna, fu presa in tempo. Non c’era ragione che la nascondessi, era la prova che ero riuscito a superare anche quell’ostacolo».
Aveva senso renderla pubblica?
«Mi sembrava giusto poter raccontare che in quel caso avevo avuto la meglio sulla morte: tema drammatico di ogni esistenza, dal momento in cui prendiamo consapevolezza di dover finire. Ed è imprevedibile come finisce. Quella volta colpì il cuore, un’altra volta mi hanno trovato un cancro alla prostata. Anche lì scoperto per caso. È come se io fossi sempre in attesa di un ostacolo da superare e questo non mi sembra da nascondere ma da rivelare».
Proprio perché non è da nascondere ti chiedo come stai adesso? Perché è come se il tuo desiderio di vita si fosse attenuato.
«Trascorro una fase di meditazione dolorosa su quello che ho fatto e sul destino che mi attende. In fondo le cose che ho scritto, le opere d’arte che vedi appartengono a un progetto di sopravvivenza. Qualcosa che rimanga e che si prolunghi oltre la vita». Come un vivere oltre e grazie a ciò che hai realizzato?
«La vita e le azioni che l’accompagnano si esprimono attraverso l’attività politica e artistica, mentre quello che passa nella mia mente è ciò che sarà oltre la mia vita».
È lo stato d’animo di questo momento?
«Sì».
Ti chiedi che cosa ne sarà di te, del tuo futuro?
«È una domanda che non posso evitare sapendo oltretutto che la mia attuale malinconia o depressione è una condizione morale e fisica che non posso evitare. Come abbiamo il corpo così ci sono anche le ombre della mente, dei pensieri, fantasmi che sono con noi e che non posso allontanare».
Una condizione per te del tutto nuova.
«Non ne avevo mai sofferto. Mi sembra un treno che si è fermato a una stazione sconosciuta».
Di un tuo libro dedicato a Michelangelo il sottotitolo recita “Rumore e paura”.
«Sono le parole del Vasari e rispecchiano esattamente il mio rapporto con il passato e con il futuro: rumore del passato e paura del futuro. Paura, incertezza, mancanza di capacità di programmare in maniera tale che io possa sapere come e quando qualcosa avverrà. È un dubbio e anche un disturbo della percezione».
In questo futuro c’è la tua vicenda giudiziaria, sulla quale tu non vuoi intervenie. Ma una cosa te la voglio chiedere: in che misura una tale esperienza sta minando questa fase della tua vita?
«In modo intenso, direi devastante. Di alcuni atti, eseguiti in assoluta naturalezza, mi vengono imputati una serie di comportamenti che non erano i miei. Ho sempre cercato di avere cura e attenzione per le opere. Che dal loro studio, e in certi casi dal loro acquisto, se ne ricavino le mie cattive intenzioni mi crea certamente dei turbamenti sgradevoli».
Come pensi di uscirne?
«Sperando che si affermi una verità, che è la verità dello spirito con cui ho fatto queste cose».
Ti rimproveri oggi una certa bulimia nel rapporto con le opere d’arte?
«Bulimia e leggerezza. Ho sempre visto queste opere senza mai pensare che potessero essere inquinate da incidenti di cui sarei stato responsabile senza averlo mai voluto essere. Forse non ho valutato i rischi e le incertezze che alcune di esse potevano portare con sé».
Si ha l’impressione che tu abbia ridotto il tuo mondo dell’arte a un grande parco giochi.
«Sì, come un bambino mi sono divertito molto. Oggi molto meno. Oggi mi chiedono di rispondere di quello che avrei fatto. Come se i giochi fossero diventati delle realtà pericolose. Giochi difficili. Questa è la percezione del bambino che si è scoperto adulto».
Dicevi delle difficoltà che in questo momento hai nel lavorare.
«Faccio fatica, e poi vedo male: per uno storico dell’arte non è il massimo».Il tuo libro “Natività” ci dice che il cristianesimo ha creato un tempo nuovo. E la sua forza risiede nel renderci liberi di sbagliare ma anche di correggerci.
«Ci avvicina a quanto di più intimamente umano possediamo: i nostri limiti. Ai quali reagiamo con arroganza, a volte con genialità, altre ancora con dolore».
Il tuo dolore.
«Il mio dolore, che contrasto con l’assenza e questa con l’attesa».