Robinson, 9 marzo 2025
Cederna “Io, giullare divenuto Papa”
Una volpe in legno grande come un cavallo a dondolo ti accoglie insieme a Giuseppe Cederna: «La prima volta che l’ho vista davanti al monastero di Poschiavo me ne sono innamorato, è una scultura di Not Bott, ma per poterla avere ho dovuto corteggiare l’artista cinque anni». La volpe ora troneggia tra kilim turchi, centinaia di libri, lampade di vetro e una scultura fluorescente di Marco Lodola, in questa casa delle meraviglie, amata e coloratissima, a metà strada tra Marrakech Express e Testaccio. Un manifesto di Mediterraneo spunta tra i ricordi più intimi: il soldato Antonio Farina bacia appassionatamente la sua Vassilissa. Cederna, 67 anni, identici occhi azzurri e magnetici di quando ne aveva venti, ha fatto molta strada per coniugare cinema e viaggio, una famiglia di grandi intellettuali e l’eresia del clown, la poesia e la passione civile in un teatro del racconto dove classico e biografico si intrecciano. Un raro sincretismo.
Partiamo dal cinema. E dal film Nuremberg di James Vanderbilt che lo ha voluto nelle vesti di Pio XII accanto a Russell Crowe e Michael Shannon. Il film uscirà a breve.
«La mia agente mi chiama e mi dice che devo fare un provino in inglese per una grande produzione.
Imparo a memoria questo testo e poi lo butto, mi dico, tanto non mi prenderanno. Vincendo ogni paura studio e affronto il provino e, accidenti, mi vogliono per la parte di papa Pacelli. Prendono me per impersonare il pontefice più alto della storia contemporanea!».
Dove avete girato?
«A Budapest, lì ho incontrato un cordialissimo Russell Crowe che ha voluto scattare una foto insieme, io vestito da Papa. Però, scherzi a parte, l’esperienza ha messo alla prova le mie capacità di attore in una grande produzione milionaria dove, alla fine, sei solo una rotella, ma che deve funzionare alla perfezione. Ci vuole disciplina. E bisogna capire qual è il punto di rottura del personaggio, la chiave che ti dà accesso al pubblico».
Un papa Pacelli in crisi di coscienza come, in “Hammamet” di Gianni Amelio, era il socialista Vincenzo Sartori. Ruolo per il quale è stato candidato al David.
«Esatto, un personaggio piccolo ma che ho amato moltissimo e che parla con Craxi all’inizio del film.
La sua è una fragilità nella quale il pubblico si è molto identificato».
Pio XII, Sartori, Amadeus, ma anche l’attendente Farina che, peramore, si chiude in un barile di olive. Che parte ha avuto il corpo nel suo essere attore?
«Provengo da una famiglia di intellettuali, mio padre era tutto testa con un corpo fragile, invece io sono stato salvato dal corpo: fare acrobazie, essere elegante come un mimo. L’apoteosi di questa espressività è stata Amadeus: un brutto anatroccolo ma genio amatissimo. Dopo lo spettacolo (Mozart, ritratto di un genio, ndr), ricevevo biglietti d’amore da signore e ragazze, mi mandavano rose».
A proposito di suo padre Antonio: ne parla nella pièce su Calvino che porta a teatro.
«È uno spettacolo in cui leggo cinque racconti di Calvino ma filtrati dal mio vissuto. Sono arrivato a un punto della vita in cui non mi basta più il teatro classico: ne ho fatto tanto, da Cechov a Molière e ora sto interpretando anche Iago nella rivisitazione di Otello di Francesco Niccolini ispirata a Pasolini in Cosa sono le nuvole?. Ma sono abbastanza cresciuto da voler proporre le mie storie». E quindi anche svelare il rapporto con Antonio Cederna.
«Anche. Uno dei racconti di Calvino che ho scelto è questo Marcovaldo rider ante litteram: travestito da Babbo Natale se ne va in giro per una città degli anni Sessanta deforme, priva di verde, in cui domina la speculazione edilizia.
Ecco, io questa città narrata da Calvino l’ho vista crescere, anzi sono cresciuto con lei come dimostra la foto in bianco e nero che consegno agli spettatori: è la periferia romana di quel periodo, l’ha scattata mia madre che spesso seguiva Antonio nei suoi sopralluoghi. Lui in quel momento sta scrivendo Mirabilia Urbis, il libro in cui racconta gli orrori dello sviluppo urbanistico romano. Bene, in quella foto in fondo a sinistra, sopra un montarozzo, ci sono io bambino. Mio padre mi aveva fatto mettere lì per questioni di prospettiva dicendomi di non voltarmi verso l’obiettivo perché non era una foto di famiglia, ma un documento. Ogni volta che la guardo mi commuovo».
Nello spettacolo immagina anche il momento esatto in cui suo padre diventa Antonio Cederna.
«Nonostante la giovane età era un archeologo di grande cultura, era una promessa nel suo campo, ma un giorno sull’Appia antica quasi precipita dentro una piscina in costruzione, forse la piscina di una diva, e capisce di dover mettere al servizio dell’esistente la sua passione per la cultura classica. Si rende conto che – siamo nel 1953 – stanno aggredendo l’Appia, anticheggiano tutto perché non si veda troppo la differenza tra vero e falso. È proprio in quel momento, in quell’inciampo, che Antonio diventa Cederna e trova la scintilla che gli serve a fare la propria parte.
Scrive l’articolo I gangsters dell’Appia, titolo che probabilmente gli ha regalato Flaiano. Poi arriverà
La città Eternit.
È questo che spiega agli spettatori, che ognuno dovrebbe avere il proprio inciampo?
«Sì, il pubblico viene a teatro per sentirmi recitare Marcovaldo, ma anche perché desidera ascoltare un pezzo della mia vita e interrogarsi sulla propria. Io e gli spettatori diventiamo una collettività di persone che in un mondo come l’attuale, simile a un incubo fantascientifico, condividono valori nei quali sono cresciuto: la passionedella cosa pubblica, la gentilezza, non avere paura di affrontare i sentimenti, il rispetto per la diversità e quello per l’ambiente».
La seguono molti giovani...
«Perché si ritrovano in quello che dico. Per esempio una chiave è mettersi a nudo svelando le fasi critiche della propria vita. Dopo Mediterraneo ho avuto una crisi terribile: i film che facevo andavano male, l’agente dei grandi attori mi aveva lasciato, la mia fidanzata mi aveva tradito durante una serie girata in Romania, e, cosa più importante di tutte, mio padre stava morendo. Ebbene questo è stato un momento cruciale perché grazie alla sofferenza ho scoperto chi ero veramente».
Anche la poesia è un formidabile veicolo di verità. In un altro spettacolo dà voce a poeti come Claudio Damiani, Pia Pera, Chandra Candiani e Wislawa Szymborska.
«Non dimenticarti mai del cielo su questa terra è il mio distillato dianni di lavoro sulla poesia, il mio commento di un viaggio poetico dentro noi stessi con l’intento di capire quali sono le cose che contano. Perché le parole fanno la differenza e io, che ho avuto in Antonio un magnifico maestro di parole, voglio condividerle».
Per questo ama Ulisse e da anni lo porta nei teatri?
«Odisseo è la consapevolezza che solo attraverso le sofferenze si cresce e si diventa quello che siamo. In lui c’è tutto quello in cui credo: c’è il viaggio, c’è il dolore, c’è la crescita e ci sono le parole di cui anche lui è maestro, come si capisce dal dialogo con Nausicaa».Giuseppe, a proposito di affabulatori sublimi, lei ha conosciuto Fellini anche per l’amicizia che lo legava a sua zia Camilla. Che ricordo ne ha?
«Mi fece un provino per Intervista, provino che poi vinse Rubini, molto più adatto. Fellini, durante quell’unico incontro, sorrideva sotto i baffi come un gatto sornione. Incuriosito che il nipote di Camilla Cederna non fosse un intellettuale, ma un ragazzo con la coda di cavallo e l’orecchino in cerca di qualcosa in un mondo diverso dal suo; questo lo divertiva».