Robinson, 9 marzo 2025
Nel castello insieme a Proust
Che la letteratura salvi la vita è falso. Che un certo libro possa invece salvare una certa vita è vero. Un libro può liberare e può anche fermare un proiettile – lo sappiamo dai romanzi – se tenuto in una tasca all’altezza del cuore. Abbandoniamo però le pistole e domandiamoci come funziona la relazione di salvezza tra letteratura e vita. Facile, basta leggere Proust, romanzo familiaredi Laure Murat (Sellerio). Poco importa che non abbiate letto Proust. Va specificato tuttavia che perché il meccanismo funzioni, perché un libro ci salvi, bisogna essere sinceri e coraggiosi, limpidi e spietati con sé stessi. Murat lo è. «Le espressi il mio disagio di non riuscire a parlarle, e la necessità, al punto in cui ero, di smetterla di mentire e dirle che vivevo con una donna. La vidi alterarsi. Era pallida... Stavo facendo l’inconcepibile. Infrangevo il codice...: “Incarni lo scacco di tutta un’educazione morale e spirituale”, e poi: “Per me sei una figlia perduta”. La vidi piangere per la prima volta. Ed è la cosa che la mia famiglia mi ha rimproverato di più: “Hai fatto piangere tua madre in pubblico. Come una domestica”». L’autrice parla della madre, Inès Simone Jeanne Marie Thérèse Charlotte D’Albert De Luynes, Sua Altezza. Da che vuole salvarsi l’autrice? È nobile, ha gli occhi chiari, vive in una bella casa, è ricca, intelligente, la sua famiglia possiede un castello con otto torri. Avremmo tutti voluto vivere nel castello, come si permette di essere infelice, da che vuole salvarsi? Dalla genealogia. La genealogia si oppone alla vita perché è il contrario delle metamorfosi. Murat lo capisce da bambina mentre sta costruendo un castello di sabbia nel giardino del castello. E la sua è solo una delle tante rappresentazioni, delle centinaia di interpretazioni del castello di Luynes – quadri, foto, stampe, incisioni – dove trascorre le estati. «Non c’è altro castello che il castello, non c’è altra famiglia che la nostra. Più che un mondo era l’universo ridotto alle dimensioni di una fortezza, oltre la quale non esisteva nient’altro. Eravamo imprigionati nella sua orbita come gli avi nella cornice dei loro ritratti. Non c’erano fuoricampo». Senza fuoricampo non c’è vita, non ci sono gli altri, non c’è sorpresa. E qui potrebbe aprirsi un discorso sulrapporto tra biografia e selfie, ma lasciamo il confronto per un’altra occasione.l pari del castello, l’aristocratico non può smettere di fare aristocratico. Non è una persona, è una categoria. Non è un singolo umano, è un ramo, secco o vivo, di un albero genealogico. Il lavoro dell’aristocratico è l’aristocratico, dunque, se si vuole fare altro nella vita bisogna fuggire. L’aggettivo, inProust, romanzo familiare di Laure Murat, ha una doppia valenza. È riferito a La Recherche, perché Murat è studiosa di Proust e di letteratura francese (insegna all’Università della California), e alla famiglia di Murat perché nella Recherche parlano, ballano, si nascondono e vivono pure i suoi parenti. Murat, il cognome, viene proprio da quel Murat, Gioacchino, che fu principe di Napoli. Sono tra gli aristocratici a cui Proust dedica tremila pagine di opera immortale. Motivo per cui, leggendo, ho provato una profonda invidia sociale innescata da una profonda invidia narrativa. Provenendo da un paese del sud Pontino, La Recherche non avrebbe mai potuto essere l’autofiction della mia famiglia.
E l’invidia perdurerebbe se non fosse che, a leggere Murat, l’aristocrazia che uno ( non appartenendovi ma aspirandovi) ha imparato da Proust, Guerra e pace, St. Aubyn e Lady Oscar e che non somiglia affatto all’aristocrazia nostrana – già Cavour soffriva di non avere un’aristocrazia all’altezza di quelle europee, da qui l’unità d’Italia – questa aristocrazia in cui Murat è nata non ha niente di affascinante, anzi, persevera nella replicazione di sé stessa, un’elica di Dna senza il resto intorno. Bello per la ricerca in laboratorio, non per la vita affettiva, sentimentale, culturale, sociale. E che c’entra Proust? Proust non racconta gli aristocratici che hanno fatto la storia, no, solo coloro per i quali il titolo è l’unico tratto distintivo e l’unica possibilità di essere ricordati. Svela l’impossibilità di vivere nella genealogia; Murat lo capisce e fugge lontano.
Insieme a The Albertine Workout di Anne Carson, Proust a Grjazovec di Józef Czapski, I racconti della Kolyma di Varlam Šalamov, il libro di Murat rivela quanto Proust, come il dottor Frankenstein, elabora via via le istruzioni per l’uso delle persone che siamo. Aristocratici o no, sempre più persi in una rappresentazione che ripete sé stessa. «Quella sera qualcuno disse: “Il castello piange il vecchio duca”. L’indomani il figlio maggiore del defunto pronunciò l’unica frase memorabile della sua vita di erede, rivolta agli addetti di cucina, nel paese di Rabelais: “Il duca è morto. Uccidete sei maiali”».