Tuttolibri, 8 marzo 2025
Feyerabend venerato maestro suo malgrado
Diciamocelo: l’idea di leggere l’autobiografia di un professore di filosofia non è esattamente allettante – ha più o meno l’appeal di una birra calda o delle istruzioni per compilare il 730. Cosa aspettarsi da un libro del genere, se non ruminazioni tanto erudite quanto soporifere, resoconti estenuanti di convegni in oscure località germaniche, liste di belle promesse della teoresi, sequele di venerati maestri (ignoti ai più) e – restando nella classica tassonomia arbasiniana – qualche tirata contro i soliti stronzi?Giusto. Però, come spesso accade, anche la regola che impone di rifuggire le autobiografie dei professori di filosofia conosce delle eccezioni: Ammazzando il tempo. Un’autobiografia di Paul K. Feyerabend (Feltrinelli) è senza dubbio una di queste. In realtà, si tratta di una ristampa dell’edizione uscita vent’anni fa, ma riveduta e arricchita da un formidabile apparato di note a cura di Alessandro de Lachenal, che è anche il traduttore.Intendiamoci: nella sua autobiografia Feyerabend interpreta il ruolo della bella promessa della filosofia, mentre di venerati maestri ne sfilano a dozzine; né manca il solito stronzo, che poi è sempre lui. Ciononostante, il libro è godibilissimo. Ma andiamo con ordine, partendo dai maestri.Feyerabend ha conosciuto personalmente molti protagonisti della cultura del Novecento – e non di rado ci ha litigato. Innanzitutto, i filosofi: da Wittgenstein a Popper (che fu il suo idolo finché non ne divenne il principale bersaglio polemico), da Buber a Ernesto Grassi («autore di vuote farneticazioni»), da Lakatos (amico di una vita e partner di baruffe leggendarie) a Searle (che tentò invano di farlo espellere da Berkeley). Poi gli scienziati: tanto per dire, da giovane Feyerabend dialoga con protagonisti della rivoluzione quantistica come Schrödinger, Dirac e Bohr (che trova un po’ supponente). Ma la lista dei suoi incontri include anche Koestler e Malcolm X, Argan e Brecht (che provò vanamente ad assoldarlo come assistente di produzione). Una specie di Zelig, insomma: dove accade qualcosa di culturalmente rilevante, Feyerabend c’è. Senza dimenticare che, oltre a essere una bella promessa della filosofia (professione scelta solo perché gli «procurava un introito»), lo è anche della lirica e del teatro.Il talento filosofico del Nostro si concretizza soprattutto in Contro il metodo (1975), opera tanto amata quanto detestata che contribuisce in modo decisivo ad affossare i tentativi degli empiristi logici e di Popper di definire il metodo della scienza. Con il suo “anarchismo metodologico”, Feyerabend dichiara che “anything goes”, perché un metodo scientifico universale non esiste e dunque non si può dire a priori come i problemi possano essere risolti. L’esempio privilegiato in questo senso è Galileo, che vinse la battaglia per il copernicanesimo non in virtù di solidi argomenti empirici, di cui non disponeva, ma grazie a eccellenti strategie retoriche e politiche.Una seconda tesi su cui Feyerabend insiste è che alla scienza non andrebbe riconosciuto un primato nel dibattito pubblico. In proposito viene però il dubbio che, se avesse potuto constatare l’odierna diffusione delle cospiracy theories e la forza degli attacchi oscurantisti contro la razionalità scientifica, forse questa posizione un po’ l’avrebbe attenuata.Ben presto, comunque, Feyerabend raggiunse il secondo stadio della triade arbasiniana, quello fecale – cosa che lui stesso rivendica, sia pure con un linguaggio diverso. Di sé scrive: «mi piaceva scioccare la gente»; quando «seppi del suicidio di mia madre… non provai assolutamente nulla»; «Bergsträsser quasi mi strangolò quando ridicolizzai la sua conferenza pubblica». E poi ricorda che di lui si diceva che «la sua propensione malevola per un succès de scandale ha suscitato collera in alcuni ambienti» oppure che fosse «il più grande nemico della scienza» (scritto su Nature!) o anche che un accademico svizzero commentò: «Non lo prenderei a Zurigo a nessuna condizione».Provocatore irrequieto, imprevedibile, geniale, Feyerabend è il tipico personaggio che piace ai posteri. Lo dimostra anche questa frizzante autobiografia, in cui con toni picareschi si narrano avvenimenti tragici – il suicidio della madre, la ferita in guerra che lo lasciò impotente e paralizzato dalla cintola in giù – e scene degne di Tom Jones: «Il venerdì gli operai prendevano la paga, andavano al bar del quartiere e si sbronzavano. Fra le due e le tre del mattino… le mogli uscivano a cercarli e li riportavano a casa. Era una scena che colpiva: donnone che sollevavano per il colletto omini minuscoli urlando con voce roboante: “Sacco di merda! Scroccone! Rotto in culo! Dove sono i soldi?"». Su una cosa, però, Feyerabend ha certamente fallito. Ottemperando alla scansione arbasiniana, infatti, è ormai diventato ciò che, con ogni probabilità, non avrebbe mai voluto essere: un venerato maestro.