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 2025  marzo 08 Sabato calendario

Nella casa in cui dipingere è come pregare "Siete qui per vedere Chagall? Eccolo"

«Non stancatelo. Non fate troppe parole. Niente fotografie. È molto vecchio». Valentina Brodsky, «Vava», seconda moglie di Marc Chagall, sta sulla soglia come un guardiano premuroso ed energico, e ammonisce il piccolo gruppo di editori e giornalisti in attesa dell’udienza. La villa di Saint-Paul-de-Vence è un edificio sobrio, sul tipo del mas, costruito con pietre del luogo, avvolto nel silenzio di ulivi, acacie e pini marittimi. Un cartello lungo la strada del parco avverte: «Attention: chien tres méchant», ma la dimora è protetta da un sofisticato impianto elettronico, approvato dalle compagnie di assicurazione.
Si entra in un soggiorno austero e quasi freddo. Ci si guarda intorno, alla ricerca di simboliche presenze: c’è una statuetta di Renoir, due «piccole opere» di Matisse e di Braque («Tutti regali» dice Valentina) e dipinti chagalliani: raffigurano una coppia di amanti che vola su un paesaggio, e il mercante di bestiame con il suo carretto. Si aspetta, con un po’ di suspense, «Il va sortir?». E, finalmente, lui appare. Piccolo, gli occhi vivacissimi, il passo un po’ strascicato. «Troppa gente» dice, quasi intimorito. E poi, con un estro da clown, fa il gesto di aprirsi il giubbotto: «Volete vedere Chagall? Eccolo...».
Gli porgono il libro, appena uscito, sui suoi dipinti ispirati alla Bibbia e raccolti nel museo “Message Biblique Marc Chagall” di Nizza (è l’unico artista vivente in Francia ad avere un museo nazionale tutto per sé). Lui sfoglia le pagine, la resa dei colori sembra piacergli, indugia sui rossi, sugli azzurri. Il libro è pubblicato dalla Jaca Book, che ha trovato coeditori in altri otto Paesi. Chagall punta il dito verso l’editore italiano: «Si ricordi, il profitto deve andare al museo». E scompare di scena, con quell’andatura insieme frettolosa e faticosa. «Torna a lavorare – spiega Valentina -. Dice che lavorare è come pregare. Serve a pagare per la vita». Le domandano: quale luogo della casa lui ama di più? «Lo studio, naturalmente». A 96 anni compiuti (e qualcuno dice che forse ne ha perfino di più, che al suo arrivo in Francia si era «ringiovanito» per ottenere certi vantaggi assistenziali), Marc Chagall non smette di dipingere, anzi pensa sempre che domani potrà fare qualcosa di meglio. Ha tre ateliers, lì accanto: uno
grande, uno piccolo, un altro con il torchio per le litografie. E quando deve affrontare tele di vaste dimensioni, si serve di un sistema elettrico che alza o abbassa il quadro, in modo che con il pennello può raggiungere, senza troppa fatica, il punto desiderato.Negli ultimi tempi, Chagall è piuttosto cambiato. «Non cammina molto bene, non sente bene, ma legge ancora senza occhiali». Siamo fuori, sotto il porticato che dà sul parco, seduti attorno a un tavolo, e Valentina sembra disposta a qualche piccola confidenza. Sì, è vero, da qualche tempo è lei che legge tutta la posta e scarta le lettere «sgradevoli», come quelle che parlano della morte di qualche amico o conoscente. Lui ha bisogno di quiete, se gli dicono che devono arrivare visitatori si innervosisce subito. Non ama più le sorprese. Una volta era molto bohème, rifiutava gli orari troppo rigidi. Ora è attaccato alle regole, la sua giornata è come un orologio: lavora dalle 9 e mezzo a mezzogiorno, pranza, poi riprende fino alle 7 e mezzo di sera. Quindi si riposa, legge, ha sempre quella vecchia passione per Mozart e Schubert.Il suo studio è diventato quasi inaccessibile. «Aveva un grande amico in Lionello Venturi – dice ancora Valentina -, aveva fiducia anche nel giudizio di Malraux. Adesso ci sono pochissime persone, come Pierre Matisse, figlio del pittore, gallerista a New York, cui ama mostrare i quadri che sta facendo». Sospira: «Io vado qualche volta a Parigi, dove abbiamo un appartamento, ma lui non viene perché non c’è l’ascensore. Quest’anno non siamo neppure andati in vacanza». Dove andavate in vacanza? «Ad Antibes, venti minuti da qui».Chagall esce sempre di meno, da anni non concede interviste («Rifiuto le interviste perché si pretende da uno come me un certo numero di paragoni, di formule, di elogi, di spiegazioni. Rispondere sarebbe come costruire una bara con i miei propri quadri»), non vuole precisare, descriversi, catalogarsi. Un tempo scendeva spesso fino a Nizza al museo “Message Biblique”. Ha partecipato anche lui a progettare quell’edificio che non doveva somigliare ai soliti palazzi polverosi che custodiscono opere d’arte. Doveva essere un luogo di incontro, di meditazione «non per un solo popolo, ma per l’intera umanità».È una costruzione bassa, con un giardino che invita alla quiete, una sala per concerti e conferenze. Lì campeggiano 17 grandi dipinti di argomento biblico (Il Paradiso, Adamo ed Eva scacciati, Noè e l’arcobaleno, Il Cantico dei Cantici, e così via) che Chagall ha donato insieme con gli schizzi preparatori, guazzi del 1930-31, un arazzo, incisioni, litografie. E vetrate dove La creazione del mondo emerge da lampi blu e azzurri. L’artista andava in quelle sale, guardava i quadri, e a volte diceva con civetteria: «Sono io che li ho fatti?». E a un gruppo di bambini aveva domandato: «Capite Chagall?». Gli altri avevano risposto: «Sì». E lui: «Io non lo capisco». Gusto del gioco, finta modestia, ma anche dubbio autentico.È difficile stare nella storia, da vivi. Ce lo spiega con amabilità Pierre Provoyeur, curatore del museo, che ha frequentato Chagall per dieci anni e ha scritto il testo del libro pubblicato dalla Jaca Book. «Il rischio è di essere accademico, il suo problema è di superare questa angoscia». Aggiunge: «Vedersi già chiuso nella gloria può anche impedirgli di lavorare. Ma lui resiste, lotta...».Quanto alla Bibbia, è uno del mondi che ha sempre portato dentro di sé. Da bambino, nel ghetto di Vitebsk, sua città natale, leggeva quelle pagine come un prodigioso racconto. Nel 1931 è andato a scoprire i paesaggi del Vecchio Testamento in Palestina, a cercarne la luce e i cieli, per ricavarne le illustrazioni ordinate da Vollard. Ma alla fine la sua è diventata una «Bibbia sognata», con i suoi bestiari, le coppie che si librano nel cielo, i verdi, i blu, i rossi che palpitano, le immagini rovesciate come un riflesso nella psiche, il magico che nasce dall’incertezza delle cose. «Chagall non racconta, non illustra, non predica la Bibbia». Per lui è un testo poetico, come le opere di Shakespeare; dice che lì c’è già tutto, «il presente, il passato, il futuro».Chagall è religioso? «Lo è nel senso di legame, di vincolo; per lui siamo tutti legati a qualcosa, a qualcuno che è superiore, che ci guida. Quando dipinge, ha l’impressione che la sua mano sia guidata, ma non saprebbe dire da chi... L’arte lo avvicina al mistero, è l’equivalente del mistero».Ma nel personaggio Chagall c’è qualche mistero?«No, lui è molto trasparente, molto semplice. È appassionato del mistero...».Quali maestri dice di avere?«Si considera un figlio spirituale di Giotto e di Cimabue, più che il fratello di Picasso».E della Russia parla?«Non ne parla, è molto prudente e, a volte, molto triste. Ma ha un attaccamento viscerale per quella terra, dove ha lasciato familiari e molte opere. E sa che là ci sono ebrei che soffrono...».Fuori dal museo, che è anche una specie di testamento spirituale, ci insegue un’immagine contraddittoria. I quadri di Chagall hanno quotazioni altissime, alla Fiera dell’arte contemporanea di Parigi in questi giorni un guazzo è stato venduto per oltre 400 milioni di lire, i dipinti del periodo russo «non hanno prezzo». Ma lui resta un uomo che non vuol farsi imprigionare in monumenti, «un uomo che ha dei dubbi». E sovente si domanda: «Quest’opera ha un’esistenza in sé? Può difendersi da sola?». È questo, ancora oggi, il suo assillo. Nel passato non vuole guardare.