la Repubblica, 10 marzo 2025
Nel carcere di Bollate, dove i sex offender seguono un progetto speciale
La prima cosa di cui ti accorgi quando varchi il muro di cinta del carcere di Bollate è la luce, tanta luce. E poi i colori. Vuol dire che la galera non è mai un bel posto ma può almeno essere un luogo dove provare a ricominciare, perfino se hai commesso il reato più odiato dalla società, dai reclusi comuni e talvolta da te stesso: stupro, molestie sessuali gravi, pedofilia, pedopornografia, revenge. «L’assemblea con i sex offender comincia tra poco, dobbiamo sbrigarci», mi avverte Alessia Valentini, la funzionaria pedagogica del ministero della Giustizia che sovrintende ai progetti di recupero per i detenuti del Settimo reparto, riservato ai condannati per reati sessuali e ai “maltrattanti”. Accanto a lei il criminologo Paolo Giulini, che con la cooperativa Cipm coordina dal 2005 il gruppo di lavoro. Mi spiega: «All’assemblea cui assisterà convergono le esperienze della settimana: i gruppi di parola e le sedute di attività fisica, yoga, meditazione, arteterapia, cinema». Riassumendo l’intero pacchetto in un acronimo si ottiene Uti, Unità di trattamento intensificato, programma che si ispira a un modello canadese ed è un unicum in Italia e in Europa. Non per caso siamo a Bollate, istituto che qualche buontempone dice “a cinque stelle” e invece è solo un posto civile, come da Costituzione.
Il tasso di recidiva
Per il tipo di problematiche che sottostanno a questo genere di reati, sono chiamati in causa strati profondi della personalità, rimozioni primitive, resistenze di ogni tipo. Dice Giulini: «Non necessariamente chi compie abusi è stato vittima di abusi sessuali a sua volta, come si tenderebbe a credere; c’è invece un dato che la nostra esperienza ci fa considerare acquisito, tutti hanno avuto un’infanzia non protetta». E allora quello che si cerca di fare qui, con rigore e senza buonismi, è portare in chiaro le zone in ombra, offrire strumenti di elaborazione con il fine di riconsegnare queste persone al controllo di se stesse e dei propri impulsi. In ballo c’è anche l’accesso ai benefici di legge, aspetto delicatissimo quando si tratta di simili reati: «Per entrare nel nostro programma il detenuto deve firmare un contratto di impegno, ma alla fine, per quelli che arrivano alla meta, il tasso di recidiva del reato precipita tra il 3 e il 5 per cento». E scusate se è poco. Dalla metà del corridoio un vociare chiama all’appuntamento con la plenaria del giovedì, appuntamento atteso da trentotto detenuti in tutto, qualcuno alla prima esperienza con l’Uti, altri già al secondo o terzo anno. Sulle pareti i pannelli realizzati durante le sedute di arteterapia fanno uno strano effetto lisergico, uguali come sono ai murales del mondo di fuori mentre qui siamo dentro che più dentro non si può, nella pancia di un penitenziario ma anche in fondo all’oscurità e alle residue speranze di ciascuno di questi esseri umani. A spanne, l’età media è tra i trentacinque e i quaranta, altrettanto a spanne il gruppo è interclassista, il livello di scolarizzazione diversificato. Un rebus sociologico che sciogli solo tenendo conto della singolarità di ognuno.
Giocare, disegnare, imparare
In assemblea si parla per alzata di mano e ora si comincia discutendo di un gioco con la palla di cui m’è scappato il nome, ma intanto comprendo meglio quel che Sergio, l’educatore di attività motoria, mi ha detto prima di entrare: «Organizziamo solo esperienze di gruppo, dove ci si misura con la competizione e l’aggressività, e ne traiamo indicazioni fondamentali. Educare a vedere il corpo dell’altro come il “proprio” corpo, per esempio, significa aiutare a fare un salto percettivo anche versus il corpo delle vittime». Il lavoro collettivo è la struttura portante, l’asse di un programma lontanissimo dall’idea di una psicoterapia individuale. Oltre ai gruppi di parola, infatti, i detenuti che disegnano, meditano o vedono film lo fanno sempre assieme: «Abbiamo inserito il cinema nel programma da poco» racconta Giulini «e andremo avanti con la proiezione di pellicole come Crash di Cronenberg e La bestia nel cuore di Cristina Comencini». Sono visioni capaci di innescare dinamiche emotive e di consapevolezza, come si cerca di fare in un altro dei momenti salienti del percorso, forse il più intenso: l’incontro con le vittime di reati sessuali, chiamate a raccontare la propria esperienza e le conseguenze della violenza subìta. Si alza la mano di Andrea, che segnala di aver battuto per la prima volta nella vita la palla dall’alto, e con i compagni ammette di essersi dato «per la prima volta la possibilità di fallire». È l’intervento che sblocca la discussione, ora sono quattro le mani in attesa di esprimere una sensazione, un pensiero o un richiamo dell’istinto. Non è una narrazione collettiva ma certi argomenti ricorrono, finiscono per stabilirsi. E in tanti confessano la paura di apparire deboli, con la conseguente chiusura interiore.
Prognosi riservata
Tocca a Salvatore, che ammette «una grande difficoltà a chiedere aiuto», poi a Matteo, che dice più o meno la stessa cosa, quindi a Jaime che non riesce «a urlare» come gli si chiede di fare «sul campo di gioco», infine a Ivan e alla sua «enorme fatica a parlare con le altre persone». Non è uno sfogatoio della repressione, che in questa sala si taglia con il coltello, ma il suo esatto contrario, un momento di valore terapeutico che Giulini coglie al volo per stabilire direzioni di senso: «Vedete che il tenere dentro, pensare di gestire con l’isolamento, poi fa venire fuori l’energia nel suo aspetto sbagliato?». L’urlo che non esce, la parola che resta muta, spesso sono questi i tratti di un sex offender, così è ancora Giulini a invitare i detenuti a un’inversione concettuale, a considerare prima la violenza e poi il sesso e non viceversa: «Partiamo dall’aggressività, che poi trova un modo sessuale per esprimersi...». Pare facile, ma arrivarci significherebbe già per metà “guarire” e la guarigione è lunga, per ora qui ci sono solo prognosi riservate. A un certo punto, questo sì che è sorprendente, ci accorgiamo di aver dimenticato di essere in un carcere, anzi si ha la sensazione fortissima di trovarsi in un “normale” luogo di cura. Parla Riccardo, che riconosce il reato che ha commesso» e vuole «capire fino in fondo» come è arrivato «a farlo». E Francesco, che l’anno scorso non si riconosceva nel proprio autoritratto e ora, al secondo giro di arteterapia, riesce un filino a vedersi. Chiude Andrea, che ha finalmente «smesso gli ansiolitici grazie allo yoga». Piccoli passi, gli operatori festeggiano con l’implicito invito a durare nel tempo: «Bene, è un ottimo segnale, buon lavoro». L’evoluzione in positivo di un sex offender non è impossibile, ma nessuno ha detto sia una cosa breve.
Scusate se è poco
Fine dello straniamento: che siamo nel carcere di Bollate ce lo ricorda Flavio, costretto a lasciare l’assemblea perché chiamato dal servizio di ritiro lenzuola. Ma la riunione era comunque agli sgoccioli e noi, tornati al piano terra, incrociamo il direttore Giorgio Leggieri, soddisfatto per il rifinanziamento dei fondi dedicati a questo tipo di progetti. «Così possiamo programmare, per noi è la cosa più importante». Se deve sintetizzare il motivo per cui Bollate è da prima del suo arrivo un modello vincente, dice: «È perché siamo concreti», e la sua frase mi accompagna fino al cancello di uscita, mentre le persone in semilibertà fanno il cammino inverso al mio. Dopo tanta immedesimazione nei colpevoli, non posso non pensare alle vittime dei delitti che oggi sono rimaste sullo sfondo, uomini e donne spesso segnate per sempre dagli abusi o dalle violenze subìte. Ma concretezza significa anche rendere effettuale una Costituzione che non dice punire e vendicare, ma infliggere una pena e riabilitare. E se non bastano queste belle parole, concretezza per concretezza, può bastare anche solo il tasso di recidiva. Scusate se è poco.