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 2025  marzo 10 Lunedì calendario

Può l’Italia sopravvivere senza gli Usa? Il super debito, 25 anni di sconfitte, le ragioni per scegliere


C’è una foto che non riesco a togliermi dalla testa mentre l’Occidente cambia sotto i colpi di Donald Trump. È l’immagine dei presidenti americani ancora in vita, ai funerali di Jimmy Carter il 9 gennaio scorso (qui sopra). Undici giorni dopo Trump avrebbe fatto il suo ritorno alla Casa Bianca, ma ora erano riuniti lì con le mogli. Quasi tutti ormai anziani, avevano presieduto su un quarto di secolo straordinario per l’America. Non solo il prodotto interno lordo del Paese non si è ridotto di molto come quota dell’economia mondiale, malgrado l’emergere della Cina, dell’India e dell’America Latina. Addirittura, da una decina di anni, quella quota è tornata ad allargarsi. Gli Stati Uniti pesavano per il 30% del Pil del pianeta nel 1999, sono scesi al 21% dopo la Grande Recessione, ma l’anno scorso erano già tornati sopra il 26%. Per dare un’idea, il peso relativo degli attuali 27 Paesi dell’Unione europea è costantemente sceso da circa il 25% nel 1999, al 13,4%. Ed eccoli lì quegli uomini, uniti solo nel lutto per un loro pari: si riconoscono Bill Clinton, George W. Bush, Barack Obama, Donald Trump. Dietro gli ex vicepresidenti Al Gore e Mike Pence, davanti l’uscente Joe Biden e la sua vice – sconfitta – Kamala Harris. Sono i volti di uno dei grandi miracoli tecnologici e finanziari della storia: oltre 40 mila miliardi di valore azionario creato nello S&P500 di Wall Street in un quarto di secolo e, per la prima volta, sette aziende innovative che da sole arrivano a capitalizzare più di un terzo di quel totale. Quale altra immagine più chiara della potenza di una nazione? Eppure c’è un altro modo di guardare a quegli uomini, con un occhio alle vulnerabilità internazionali e finanziarie dell’America. Queste spiegano perché, anche senza Trump, l’Europa si sarebbe comunque trovata dov’è oggi: spalle al muro, obbligata a diventare un’entità politica e militare o finire in balia degli eventi. Il che dovrebbe chiarire una volta per tutte le idee anche in Italia. Vediamo.
(Non esitate a scrivermi: commenti o contestazioni e proposte).
Ho scelto di contare dal 1999, perché quell’anno ha un doppio significato per l’America. Il crollo del Muro di Berlino, con il conseguente mito sulla “fine della storia”, era di appena dieci anni prima. Eppure il 1999 è stato l’ultimo anno in cui gli Stati Uniti registrano un chiaro successo di politica estera e uno degli ultimissimi con un attivo del bilancio federale (grafico sotto). Da allora il progredire dei deficit pubblici e l’aumentare del debito dal 54% al 122% del Pil viaggiano in parallelo a oltre un quarto di secolo di sconfitte, umiliazioni, calcoli sbagliati e arretramenti del ruolo dell’America nel mondo.
L’ultima operazione riuscita di politica estera è stata il Kosovo, sotto Clinton, nella primavera del ’99. L’amministrazione guidò una coalizione della Nato e, colpendo dal cielo, costrinse la Serbia fermare i massacri degli albanesi. Entrai in Kosovo subito dopo la fine della guerra: il territorio è pari a una piccola provincia italiana, ma erano dispiegate forze di pace sotto mandato Onu con 40 mila uomini (russi compresi, relegati in un campeggio nell’aeroporto). Oggi si spera di stabilizzare l’Ucraina, il Paese più vasto d’Europa in guerra con il Paese più vasto al mondo, con 30 mila peace-keeper. In Kosovo i villaggi erano carbonizzati dai serbi. La terra sui fianchi delle colline era rivoltata di fresco, per le sepolture di quasi diecimila caduti. L’America aveva evitato una catastrofe umanitaria ancora peggiore.
Fu una delle ultime volte. Appena due anni dopo l’11 settembre segna una vittoria di Al Qaeda, il fallimento dell’intelligence americana e innesca la più grave sbandata strategica degli Stati Uniti dopo il Vietnam. La guerra all’Iraq inizia nel marzo 2003 sulla base di prove false sulle armi di Saddam Hussein, costa la vita a 4.400 militari americani, 200 mila militari e civili iracheni e costa duemila miliardi di dollari al bilancio federale, senza riuscire a stabilizzare il Paese o a costruire una plausibile democrazia. L’attacco all’Afghanistan aveva invece ragioni più solide, perché i talebani avevano fornito le basi ad Al Qaeda; ma dopo vent’anni di presenza militare, 2.400 militari statunitensi e 47 mila fra militari e civili afgani uccisi nel conflitto, più 2.300 miliardi di dollari spesi dall’America, prima Trump e poi Biden negoziano una ritirata che riconsegna il Paese ai talebani. È l’estate del 2021. Quella fuga umiliante, con il tradimento della società civile di Kabul o Kandahar, convince Vladimir Putin che si poteva provare a soggiogare l’Ucraina, perché l’America non si sarebbe opposta a lungo.

La grande recessione avrebbe affossato il bilancio ancora di più, mentre i passi indietro di politica estera si ripetono e i conti continuano a deteriorarsi. Le guerre, la crisi finanziaria nata dalla deregolamentazione di Wall Street, la detassazione dei ricchi e delle imprese, l’impatto del Covid fanno arrivare il debito pubblico al 132% del Pil, quando l’America aveva conti in ordine e debito “tedesco” al passaggio di mano fra Clinton e Bush. Da decenni i saldi di bilancio sono strutturalmente in fase di progressivo deteriorarsi, malgrado la crescita sorprendente dell’economia (grafico sopra).
Proprio Bush accoglie la Russia nel G7 (divenuto G8) puntando sulla sua integrazione con le democrazie, ma Putin risponde invadendo la Georgia nel 2008. Quindi, a partire dal 2011, falliscono le strategie di Obama dopo le “primavere arabe”. Non solo neppure una delle rivoluzioni riesce a produrre una democrazia stabile (ultima a cadere, quella tunisina); soprattutto Obama sbaglia tragicamente in Libia e Siria, spalancando le porte all’interferenza russa.
Lo stesso Obama alla fine dei suoi anni alla Casa Bianca definirà l’intervento militare in Libia il suo “errore peggiore”, per non aver pianificato cosa fare dopo la caduta del colonnello Muhammar Gheddafi (incredibile, specie dopo la lezione irachena). I bombardamenti sulla Libia avevano avuto la motivazione clintoniana di prevenire una “catastrofe umanitaria”, ma ne segue anche una geopolitica: il Paese sprofonda nelle guerre tribali, nei saccheggi, nei traffici di migranti e accetta a Est una tutela militare russa che dura fino ad oggi.
Lo stesso Obama non ne esce meglio sulla Siria. Non solo Bashar Al Assad ignora il suo invito a smettere di bombardare gli insorti e a farsi da parte; il dittatore di Damasco lo umilia, dimostrando quanto sia vuota la minaccia del presidente degli Stati Uniti di intervenire se le aree dei nemici interni fossero state bersagliate con armi chimiche. Assad fa strage di migliaia di connazionali, ma Obama si nasconde dietro al Congresso anziché ordinare un attacco aereo. Il trauma e i costi anche finanziari dell’Iraq hanno lasciato il segno. Anche qui è la Russia – questa volta con la Turchia – a riempire il vuoto lasciato dall’Occidente e a salvare Assad, distruggendo dal cielo le città degli insorti.
In Medio Oriente intanto, per più un decennio, gli Stati Uniti non riescono a fermare il programma nucleare iraniano né il finanziamento dei piani di Hamas a Gaza ad opera del Qatar (sulla carta, un alleato di Washington).
Ma le ingenuità di Obama riguardano anche la Russia. Dopo l’aggressione alla Georgia del 2008 sotto Bush, già l’anno dopo il nuovo presidente propone un “reset” – un ristabilimento dei rapporti – al quale Putin risponde affermando il suo ruolo in Libia, in Siria e soprattutto con l’annessione della Crimea nel febbraio del 2014. Per la prima volta dal 1945 i confini in Europa sono spostati con la forza. L’Occidente reagisce con sanzioni deliberatamente deboli. Un mese dopo, nel marzo del 2014, Obama sfida la nevrosi imperiale Putin leggendo malissimo il suo rabbioso complesso d’inferiorità: definisce la Russia “una potenza regionale che minaccia i suoi vicini a causa della propria debolezza”. Al Cremlino suona come una provocazione e meno di un mese dopo parte l’attacco al Donbass: probabilmente sarebbe scattato comunque, di certo continua ancora.
Paradossalmente il maggiore successo americano di politica estera dell’ultimo quarto di secolo è proprio la difesa dell’Ucraina da parte di Biden. Non solo il vecchio presidente ha tenuto in piedi un’Ucraina libera, democratica e indipendente; non solo ha evitato l’escalation ad altri Paesi dell’ex Patto di Varsavia e disinnescato le minacce nucleari russe. Malgrado in Italia si propali spesso il contrario, Biden ha fatto sì che la scommessa di Putin del febbraio del 2022 sia andata male. Altro che “vittoria”. Oggi il Cremlino controlla meno territorio in Ucraina di quanto ne controllasse nell’aprile di tre anni fa (circa il 19% oggi, contro il 22% a fine aprile del 2022). Intanto la Russia ha perso oltre 200 mila dei suoi uomini, ha avuto oltre 600 mila feriti spesso gravi, ha subito la fuga all’estero di almeno 700 mila giovani altamente istruiti, bruciato circa 200 miliardi di dollari nello sforzo di distruzione, è danneggiata dalle sanzioni, è ridotta a un sistema totalitario e ha un’economia scricchiolante, che funziona solo per produrre mezzi di guerra ma è in grado di reggere così forse solo fino alla fine dell’anno.
È il bilancio di una catastrofe, per Putin. Solo Trump poteva offrirgli una trionfale via d’uscita proprio ora.  
Può l’Italia vivere senza l’America? 25 anni di sconfitte, il super debito Usa, è tempo di decidere
Paradosso americano
Ma proprio qui è il paradosso americano. Quest’America che per un quarto di secolo colleziona trionfi tecnologici e a Wall Street, ma umiliazioni nel mondo, sarebbe tentata di ritrarsi. Di curare solo la rivalità crescente con la Cina. Ma non può. Il grafico sopra, che ho elaborato su dati della Federal Reserve di St. Louis e della Banca Mondiale, mostra il peso degli squilibri di bilancio americani e la dipendenza di Trump dall’estero. In questi due decenni il deficit e il debito americano sono cresciuti costantemente, appunto anche perché il Paese non tassa abbastanza i propri residenti più ricchi e le grandi imprese. Il grafico mostra il fabbisogno di nuovi prestiti supplementari del Tesoro americano, anno per anno dal 1999 al 2024, in proporzione alla crescita nominale mondiale. Per esempio, l’economia mondiale nel 1999 ha generato poco più di mille miliardi nominali di crescita (inflazione inclusa) e il Tesoro americano ha avuto bisogno di 121 miliardi di prestiti in più: appena l’11% della crescita mondiale – America inclusa – bastava a finanziare il governo degli Stati Uniti a rendimenti bassi e sostenibili. Ma negli ultimi anni questa proporzione è cresciuta stabilmente sopra al 50%. L’America ha bisogno di aspirare sempre più soldi dal resto del mondo per tamponare i propri squilibri. Nel 2023 l’economia mondiale ha generato 4.990 miliardi di dollari di crescita lorda – dunque di nuovo risparmio – ma il governo americano ha avuto bisogno di 3.128 miliardi di prestiti supplementari. I nuovi tagli alle tasse promessi da Trump minacciano di peggiorare le cose. Il problema del presidente, a cui tutta l’amministrazione guarda con ansia, è di cooptare con l’intimidazione gli altri Paesi per finanziare a costi accettabili i crescenti squilibri americani. La superpotenza è vulnerabile. E lo sa.
Perciò l’America prima o poi si sarebbe ritirata comunque dai suoi impegni in Europa, anche se Trump lo fa nel suo modo traumatico. E perciò l’Europa comunque non ha altra strada se non quella di costruire la propria sovranità politica e di difesa. Con questo peculiare declino americano – unito a un trionfo tecnologico – è finita una stagione durata ottant’anni. L’opposizione di sinistra in Italia si illude raccontandosi che la spesa militare non serve e che, in fondo, l’Europa può continuare nel suo piccolo mondo antico: quel mondo non c’è più. E Giorgia Meloni si illude di poter continuare a difendere il diritto di veto in politica estera a Bruxelles e di restare sospesa fra Washington e Bruxelles. Non è più tempo di difendere un’alleanza che non tornerà – non per parecchi anni – ma di ricostruire le fondamenta dell’Europa. Per l’Italia è il tempo di scegliere: se non ci saremo stavolta, o ci saremo ambiguamente, non saremo più con la stessa credibilità fra i Paesi fondatori.