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 2025  marzo 10 Lunedì calendario

Intervista a Giulia Ligresti

Giulia Ligresti scorre i messaggi sul suo telefono: 26 agosto 2021, scrive a Roya, a Kabul, di disegnarsi una «P» sulla mano, il segno di riconoscimento per salire su un volo che la porterà in salvo in Italia; poi le invia la posizione del volontario che la sta aspettando. Ecco il selfie sorridente di Roya e del volontario: è fatta. Anzi, no. Proprio lì, all’Abbey Gate, un kamikaze si fa saltare in aria. I morti saranno 183. Roya è viva, ma terrorizzata: i suoi vocali fanno rabbrividire anche solo a riascoltarli adesso. Non parte più, naturalmente. Giulia cerca, e trova, una «casa sicura» per lei. Ma dalla «casa sicura», Roya manda foto di talebani che tentano di entrare con le armi. C’è l’inferno in quelle chat. E c’è la speranza. Ci sono i messaggi dall’India, dalla «Casa di Bambi», che ha il nome della mamma di Giulia: padre Sibi le invia foto gioiose di ragazzine che giocano a pallavolo con le suore. E ci sono i messaggi di una giovane siriana in fuga. Giulia posa il telefonino sul tavolo: «Sono ragazze diventate sorelle che vivono in Paesi dove la libertà negata è la normalità. E noi non ci rendiamo conto di quanto sia importante la libertà».
Lei l’ha persa due volte, la libertà, arrestata con i fratelli e il padre in un’inchiesta su presunte false riserve sinistri della Fondiaria Sai di famiglia. Nel 2013, finì in custodia cautelare; nel 2018, tornò in carcere per scontare la pena patteggiata di due anni e 8 mesi. Salvo uscire tre settimane dopo con un clamoroso colpo di scena ed essere poi assolta, «perché il fatto non sussiste». Stasera a Milano, Giulia presenta la sua autobiografia, Niente è come sembra, edita da Piemme. Gli occhi blu saettano, i bicipiti sono torniti dallo yoga, è sempre la bellezza per cui la celebravano le copertine delle riviste finanziarie.
Se la sente di tornare a un’altra sua immagine più tristemente celebre, quella del luglio 2013?
«Quella con la maglietta da ginnastica grigia, al tribunale di Torino?».
Magrissima, pallida, spaventata, scortata dagli agenti mentre va all’interrogatorio dove si deciderà il patteggiamento.
«Ero un fantasma che cammina, non ero più io. Quel giorno, ho giurato a me stessa che non sarei mai più stata così e che nessuno avrebbe più avuto il potere di spezzarmi. Provavo terrore misto a stupore. Da un momento all’altro, ero stata strappata ai miei tre figli, messa in una cella sorvegliata a vista, senza che ci fosse ancora stato un processo. La cosa che mi faceva più male era pensare che tutto questo era volutamente causato da un essere umano come me, non da un tiranno, un dittatore. Non riuscivo a capacitarmi che, in un Paese civile, una persona coi nostri valori, qualcuno che poteva avere famiglia e figli, potesse volontariamente causare tutto quel dolore».
Gli inquirenti la sospettavano di falso in bilancio aggravato, false comunicazioni sociali, manipolazioni del mercato.
«Io sapevo di essere innocente e resto convinta che lo sapessero già anche loro. Il carcere preventivo andrebbe applicato solo con oggettivi pericolo di fuga, reiterazione del reato, inquinamento delle prove. Io dove potevo scappare con tre figli? Ormai, penso che dovrebbe esserci un’intelligenza artificiale applicata alla giustizia, senza interpretazione umana. Metti dentro i fatti, le norme e hai il verdetto».
Perché quel giorno decise di patteggiare?
«Lo scambio era chiaro e necessario: mi hanno fatto capire che, se non avessi patteggiato, sarei rimasta rinchiusa a lungo. Io volevo tornare dai miei figli. Il piccolo aveva undici anni. Per andare a casa, avrei ammesso di aver ucciso Giulio Cesare».
Scrive che per un momento si è odiata per la sua fragilità.
«È successo ripensando a un interrogatorio in cui ho percepito che chi mi interrogava era anche l’unica persona col potere di salvarmi. Non è stata proprio una sindrome di Stoccolma, ma ho sentito che non avevo alcun potere di ribellarmi. Invece, la seconda volta, quando sono venuti a prendermi per scontare la condanna a San Vittore, ero preparata, mi sentivo come Louis Zamperini in Unbroken».
Vale a dire?
«È un film su un americano prigioniero in un campo giapponese, dove cercano di spezzarlo in tutti i modi, ma lui resiste, non si rompe mai. È stato il mio modello, con Nelson Mandela. Mi ripetevo: se Mandela è riuscito a resistere in prigione per 27 anni, quello che vivo io è nulla in confronto. Quella seconda volta, nel cortile di San Vittore, correvo tanto da fare quindici chilometri al giorno. Davo lezioni di yoga alle altre detenute, ero diventata la loro personal trainer. Mi chiedevano cosa fare per gli addominali o per dimagrire. Era come stare in un mondo distopico, sostenuta e confortata da chi, per il nostro mondo, è considerato ai margini, mentre i buoni, quelli che stavano fuori, erano diventati i cattivi».
La svolta arriva quando suo fratello Paolo viene invece assolto. Da lì, nel 2019, lei riesce a ottenere l’assoluzione con la revisione del processo. Avendo patteggiato, non aveva perso le speranze?
«Mai. Neanche quando, con mio fratello già assolto, mi hanno negato l’affidamento ai servizi sociali. So che l’universo, alla fine, rimette sempre a posto le cose».
Lei è stata nei consigli di amministrazione di Sai, Pirelli, Telecom, Ieo, vicepresidente di Fondiaria Sai e presidente e Ad di Premafin... Ora cosa fa?
«Ora sono una designer. Ho sempre avuto questa passione, era un mio sogno e ora è la mia professione. Il mio esordio è stato una panca con scritto “love” sullo schienale, l’ho portata alla gallerista Rossana Orlandi, è piaciuta. Ne è nato un marchio e, adesso, mi rappresenta una galleria con sede a New York. Credo che tutti viviamo tante vite, questa ora è la mia e spero non sia l’ultima».
Giulia Ligresti nella Bambi Home in India
L’impegno umanitario quanto fa parte della sua vita?
«C’è sempre stato. In quel luglio del 2013, ero appena tornata da Gaza, per un progetto dell’Associazione Realmonte Ets, che aiuto ancora oggi come volontaria. Stavamo organizzando la formazione di operatori che aiutano i bambini a superare i traumi. Da presidente della Fondazione Fondiaria Sai, avevo conosciuto in India Padre Sibi, un prete camilliano che ha creato la casa di Bambi, ci sono tornata sempre, ci ho portato i miei figli, è diventato parte della mia famiglia. Le prime bimbe che ho conosciuto da lui, ormai, sono diventate mamme. Una, Divia, sposata, felice, mi ha commosso quando mi ha detto che gli anni più belli della sua vita sono stati quelli nella Bambi Home. Poi, padre Sibi mi ha fatto conoscere le suore del Myanmar, che aiutano donne in difficoltà per milioni di motivi. Le ragazze conosciute in questi anni sono tutte come sorelle, le sento ogni giorno. Anche Roya sta bene, vive in Germania».
Suo padre è mancato nel 2018. Com’era il Salvatore Ligresti che ha conosciuto lei?
«La persona più geniale che abbia mai incontrato, con una grandissima capacità di entrare in connessione con le persone. Passava la metà della giornata ad ascoltare e aiutare chi aveva bisogno, amici e sconosciuti. Era un ingegnere innamorato dei grattacieli e la sua visione, il suo lavoro, sono presenti in tutti i progetti che hanno cambiato il volto di Milano, da City Life a Porta Nuova».
Giulia e Salvatore Ligresti
Era un padre affettuoso?
«Moltissimo. Pranzavamo sempre insieme, il mio ufficio era accanto al suo. In vacanza, ci raggiungeva per vedere i nipoti. I miei figli hanno preso da lui la concretezza di avere sogni e realizzarli. Ginevra ha fondato Riding Safari Club: crea esperienze a cavallo nei luoghi più incredibili del mondo. Federico è stato tanto all’estero, ora lavora nell’immobiliare a Milano. Sono straordinari, nei giorni peggiori si sono ribaltati i ruoli, hanno dimostrato una forza incredibile, si sono occupati del piccolo, Leonardo. Ginevra e Federico, a soli 21 e 22 anni, hanno coordinato legali e amici».
Una cosa che suo padre ha insegnato a lei?
«A non avere timore di dire la verità. E che una stretta di mano ha veramente un valore».
L’ha lasciata libera di scegliere cosa fare?
«Totalmente. Anche quando mi sono sposata a 19 anni prima che finissi il liceo. Mi fa: “Sei sicura? Amore, sicura? Allora, va bene”. Ma ero già molto matura e mio padre non faceva mai pesare il suo giudizio. Metteva in atto il detto indiano: prima di giudicarmi, devi camminare mille anni nelle mie scarpe. Ho vissuto una vita piena di amore e la vivo tuttora».
Com’è fatta una vita piena di amore?
«Bellissima.
Piena dell’amore dei miei figli, della mia famiglia, dei miei amici. In carcere ricevevo anche 50 lettere al giorno. La mia amica Rossella mi mandava sempre lettere piene di glitter e cuoricini. Sono uscita con un sacco zeppo di lettere, tipo Babbo Natale, 42 erano proposte di fidanzamento, a dire il vero. Di detenuti che mi avevano vista in tv».
Quante vite s’immagina ancora davanti?
«Almeno un paio. E, se la mia vita dovesse finire domani, ho lasciato tracce d’amore importanti: i miei figli».