Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  febbraio 22 Sabato calendario

In tribunale va in scena il lato oscuro dell’uomo.

È un tema cardine delle nostre società e letterature, il processo, da Kafka a Dostoevskij fino a noi. Facile capirne il perché. Forse, come scrive Francesco Caringella, presidente di sezione al Consiglio di Stato, ultimo di una serie di giuristi prestati alla letteratura, perché in un’aula di tribunale «va in scena il lato oscuro e indicibile dell’essere umano». In libreria è arrivato il suo ultimo romanzo, L’attesa dell’alba (Mondadori), che è la storia di un avvocato non più giovanissimo, scapolo e anticonformista, alle prese con un caso di eutanasia in famiglia. Un salto nell’indicibile, appunto, passando per il portone di un palazzo di giustizia.
Caringella, lei finora aveva scritto dei classici “gialli giudiziari”. Non stavolta, anche se il tema dell’eutanasia ha già fatto irruzione nei nostri tribunali.
«Diciamo che mi sono emancipato dalla “comfort zone” del giudice scrittore. È stata una sfida complessa che mi ha costretto a interrogarmi su questioni che toccano il significato della vita, il mistero della morte, la stessa nozione di uomo… Quindi sì, è stato faticoso e molto spesso mi sono pentito, durante la gestazione del romanzo, della scelta fatta. È stato difficile però al tempo stesso emozionante spogliarmi un po’ della toga e immergermi nell’oceano delle problematiche etiche».
Il suo protagonista è un avvocato disincantato che mira a vincere le cause senza troppo curarsi del resto. A definire la giustizia “latrina delle passioni” parla più il giurista o lo scrittore?
«Nella mia vita c’è anche l’esperienza di giudice penale in Corte d’assise dove ci si occupa di omicidi. Si deve rispondere non solo alla domanda se tizio ha ucciso caio, ma anche perché lo ha fatto. È il codice che obbliga a trovare una spiegazione per individuare i moventi per stabilire la giusta pena. Così il giudice finisce necessariamente per essere anche psicologo, perché deve comprendere il movente oscuro che ha spinto un uomo a dimenticare di essere uomo».
Scavo psicologico che si fa nei tribunali come in un romanzo?
«Il delitto non è mai il frutto estemporaneo di un attimo, ma è sempre il precipitare di una vita infelice e incompresa. Per il giudice c’è sempre una dicotomia, alcune volte addirittura conflittuale, tra la legge e la giustizia”. Il conflitto poi raggiunge l’apice nei casi di eutanasia.
«Quando il delitto di cui si parla è l’aiuto al suicidio, anche se di un consenziente, è ovviamente un dramma religioso, etico, filosofico, familiare, sanitario, e anche giuridico. Diceva Sartre che ogni giudice è un uomo vestito da Dio, ma è comunque un uomo. Deve stabilire cosa è vero e giusto, però lo fa con la debolezza, le miserie, le convinzioni, la vanità di ogni uomo. Quindi sì, c’è una perenne inadeguatezza tra le enormità dell’obiettivo e la pochezza delle forze. Quando parliamo di eutanasia, poi, è ancora di più evidente che con il codice è difficile risolvere il problema».
Scusi, quanto c’è di Dürrenmatt nei suoi romanzi?
«Forse il mio autore preferito. I romanzi di quello straordinario autore svizzero mai abbastanza lodato sono forse la testimonianza più cruda e autentica del dilemma tra giustizia e verità, tra la verità convenzionale che viene affermata da una sentenza e la verità reale della vicenda umana. Dürrenmatt approfondisce uno scavo psicologico estremo, caustico, tale da mettere i protagonisti di fronte al dramma della propria inadeguatezza. E tutti alla fine si rivelano attori e marionette di una vicenda più grande di loro».
C’è un’altra frase del suo romanzo che colpisce: “In un’aula di giustizia non vince la storia migliore, ma la bugia raccontata meglio”. È così che va?
«Bisogna chiarire un equivoco di fondo. Non esiste nei tribunali la verità oggettiva, perché quella la conosce solamente Dio. Nei tribunali esiste la verità soggettiva, che appare la più verosimile sulla base delle prove».
E pensando all’oggi, non trova che nelle nostre società ci sia una grande insoddisfazione proprio per limiti della giustizia e ciò sia alla radice di gravose scelte politiche?
«Verissimo. Ho iniziato la mia carriera nel 1991, all’inizio di Tangentopoli. All’epoca il problema era opposto, di una fiducia cieca nella giustizia. Si affidava ai magistrati, in particolare ai pubblici ministeri, un ruolo salvifico ed etico. Un ruolo, diciamolo pure, di rivoluzione politica. Quella fase è terminata ed è stata seguita gradualmente e inesorabilmente da una fase esattamente opposta. Per la verità non coinvolge solo la giustizia, bensì tutte le istituzioni, a partire dalla politica, per non parlare dell’amministrazione e delle autorità in genere. Ma questa sfiducia preconcetta nei confronti della giustizia la rende drammaticamente debole. Diceva Calamandrei che la giustizia probabilmente non esiste, ma esiste certamente la fede nella giustizia. Intendeva dire che la giustizia è un obiettivo difficile da raggiungere, ma è necessaria la fiducia della gente in lei perché in sua assenza quella diventa impotente. E ciò non è un bene».