Domani, 10 febbraio 2025
Grande stratega e dottor Stranamore? Il presidente Usa alla guerra dei dazi
I dazi di Donald Trump sono diventati la principale fonte di incertezza per il mondo. I mercati scommettono su quale sarà l’impatto sul dollaro e quali i titoli delle aziende maggiormente colpite. Le banche centrali, per decidere l’andamento dei tassi, si interrogano di quanto aumenterà l’inflazione. E i governi si preparano alla trattativa, ma senza conoscere cosa li aspetta. L’unica certezza è la totale incertezza su quali siano le vere intenzioni di Trump, i suoi obiettivi, e la strategia per raggiungerli.
Danni per tutti
Se si usa l’analisi economica la guerra commerciale di Trump danneggia sia gli Usa che il resto del mondo. I dazi sono una tassa sui consumatori che acquistano un bene importato e un sussidio ai produttori americani. L’aumento dei prezzi è dunque il meccanismo utilizzato per reindirizzare la domanda a favore delle imprese locali: l’inflazione è l’ovvia conseguenza.
Che i dazi siano inflazionistici è certo, di quanto non si sa. I produttori esteri potrebbero ridurre i listini per mantenere le quote di mercato; i produttori americani potrebbero aumentare i prezzi perché i dazi fanno salire anche il costo delle materie prime, componenti e semilavorati importati, e perché dovrebbero sostenere il costo degli investimenti per incrementare la produzione locale; infine, l’apprezzamento del dollaro rende più convenienti i beni importati vanificando in parte l’effetto dei dazi.
Se a causa dei dazi le imprese che esportano negli Usa decidono di ridurre i margini per non perdere quote di mercato, mentre aumentano i costi per quelle americane (per esempio, le case automobilistiche che hanno delocalizzato le produzioni in Messico, o le raffinerie al confine col Canada per utilizzare il suo petrolio) c’è anche un impatto recessivo, amplificato dall’aspettative di un aumento dell’inflazione che frena la discesa dei tassi da parte della Fed.
Uno scenario che può causare una caduta a Wall Street, che avrebbe un impatto negativo sui consumi visto che gran parte del risparmio previdenziale americano è investito in azioni. Un effetto recessivo che sarebbe amplificato se gli altri paesi, come probabile, a loro volta imporranno dazi sulle importazioni dall’America scatenando una guerra commerciale. Utilizzando i criteri dell’economia i dazi di Trump appaiono pertanto insensati perché recessivi e inflazionistici, in una guerra commerciale in cui tutti ci perdono.
Efficacia ridotta
I dazi non raggiungerebbero neanche l’obiettivo di ridurre il disavanzo commerciale americano perché questo è causato principalmente della carenza di consumi in Europa, Cina e nel Global South (i paesi di Africa, America Latina, Medio Oriente e Sud Est Asiatico), e dall’esportazione del loro eccesso di capacità produttiva negli Usa per sostenere la crescita. Fintanto che ci sarà un eccesso di risparmio nel mondo, i dazi avranno soltanto un’efficacia ridotta e temporanea sulla bilancia commerciale americana.
Usando i criteri dell’economia Trump sembra dunque un Dottor Stranamore (il famoso film di Stanley Kubrick) che rischia di distruggere le economie del mondo con una guerra commerciale (analoga a quella nucleare del film).
Una chiave di lettura alternativa è che Trump utilizzi i dazi come strumento negoziale per estrarre concessioni a vario titolo dagli altri paesi, e che sia disposto a pagare un prezzo economico pur di ottenere vantaggi politici il cui valore sfugge all’analisi degli economisti (per esempio, quanto vale l’influenza in politica estera?).
In quest’ottica la politica di Trump ha una sua logica. Tutti si aspettavano che esordisse imponendo dazi contro la Cina, non contro Messico e Canada. Ma questa scelta, proprio perché inattesa, rende Trump imprevedibile, rafforzando in questo modo la sua posizione negoziale nelle future trattative con gli altri paesi.
È vero che Messico e Canada, in quanto economie fortemente integrate con gli Usa, possono più facilmente rivalersi imponendo dazi sulle merci americane; ma non hanno un incentivo a farlo perché in quanto economie aperte che dipendono maggiormente dalle esportazioni, sopporterebbero un costo più elevato di quello che possono infliggere agli Usa.
La motivazione della lotta alle droghe, è stato solo un pretesto per poter violare il trattato commerciale esistente coi due paesi, che altrimenti avrebbe richiesto l’autorizzazione del Congresso. E i dazi ridotti sul petrolio canadese, un modo per evitare che diventasse conveniente venderlo altrove per via dei costi di trasporto per mare.
Dazi alla Cina
In modo altrettanto inatteso Trump ha optato per dazi contro la Cina poco più che simbolici segnalando la volontà di avviare una trattiva a differenza di quanto dichiarato in campagna elettorale.
A cui la Cina ha risposto con dazi altrettanto simbolici, ma facendo anche ricorso al World Trade Organization contro gli Usa, volendo segnalare in questo modo agli altri paesi del mondo che la Cina, a differenza dell’America, è un partner commerciale affidabile perché rispetta le regole internazionali.
Più che una guerra assomiglia a una partita a scacchi: per affrontarla la teoria dei giochi usati per i “war games” sembrerebbe più appropriata dell’analisi economica tradizionale.
In questo scenario l’Europa appare un vaso di coccio: già fatica a elaborare una strategia comune in molti campi, la sua debolezza emergerà quando Trump sfrutterà i diversi interessi nazionali per trattare coi paesi singolarmente ed estrarre da ognuno il massimo vantaggio: basti pensare a quale sarebbe la risposta “unitaria” europea se, per esempio, Trump decidesse di tassare le importazioni di auto (tedesche) piuttosto che di vino (italiano), o del lusso (francese) o di prodotti farmaceutici (Irlanda).
I rischi per l’Italia
L’Italia rischia di pagare il prezzo più alto se il vassallaggio di Giorgia Meloni nei confronti di Trump, che allineando l’Italia all’Ungheria di Viktor Orbán ci ha inimicato il resto d’Europa, non riuscirà nemmeno a risparmiarci i dazi sulle nostre esportazioni, come temo. La gratitudine non esiste in politica estera, men che meno con uno come Trump.
C’è anche un’altra chiave di lettura, che mette in luce come i dazi di Trump potrebbero avere conseguenze durature nel tempo. La globalizzazione è stata il motore della crescita economica mondiale e del commercio internazionale degli ultimi quarant’anni: come previsto della teoria dei vantaggi comparati, il benessere economico complessivo aumenta se i paesi si specializzano nella produzione di beni e servizi dove hanno un vantaggio relativo, per poi commerciare liberamente tra di loro.
La globalizzazione ha però devastato l’industria pesante e la manifattura americana, distruggendo milioni di posti di lavoro, sostituiti dall’occupazione nei servizi, molto spesso fatta da immigrati. Ha quindi creato una ampia fascia della classe media e operaia che si è impoverita, non potendo beneficiare della rivoluzione tecnologica che ha concentrato la ricchezza nelle mani di pochi e nelle città costiere, e che quindi si è sentita abbandonata dalle istituzioni democratiche, in cui ha smesso di credere.
Come ha osservato il premio Nobel Daron Acemoglu in un bellissimo articolo sul Financial Times, sono questi gli elettori di Trump che è dunque il sintomo di questo malessere. Per Trump i dazi costituiscono la strategia per ricostruire l’industria americana e ricreare i posti di lavoro distrutti dalla globalizzazione.
Certamente l’autarchia avrebbe un costo, ma sarebbe un prezzo piccolo da pagare rispetto al resto del mondo perché gli Usa sono un’economia chiusa dove la somma di esportazioni e importazioni costituiscono appena il 26 per cento del Pil rispetto, per esempio, al 102 della Ue.
Ma per Acemoglu, da sintomo, Trump diventerà la causa del declino secolare degli Usa perché sta distruggendo quelle istituzioni democratiche in cui i suoi elettori non credono più, ma che sono state alla base del successo economico americano avendo garantito la certezza del diritto e il rispetto delle regole, favorito l’innovazione e promosso la concorrenza. Così Acemoglu prefigura il soprasso dell’Europa nel 2050. Su questo ho miei dubbi vedendo la stessa deriva da noi. E senza aver avuto la rivoluzione tecnologica.