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 2025  gennaio 31 Venerdì calendario

Jalta ottant’anni dopo. L’ultima mappa del mondo

Nessuno si accorse che erano 13 a tavola, nemmeno il presidente americano Franklin Delano Roosevelt, scaramantico al punto da portare sempre con sé la coda portafortuna di Gloucester, il cavallo più bello del mondo. Nella sala dove lo Zar Nikolaj II giocava a biliardo, a palazzo Livadia, il pranzo era stato predisposto per 14 persone, 5 americani, 3 inglesi, un russo, due interpreti, e naturalmente i tre protagonisti della Conferenza di Jalta iniziata una settimana prima e giunta adesso all’atto finale, con la firma degli accordi da parte di Roosevelt, Stalin e Churchill. Ma pochi minuti prima della fine, quando gli agenti dell’NKV avevano spalancato le porte ai fotografi e ai cineoperatori per fissare l’evento nelle immagini che diventeranno storiche, l’ambasciatore americano a Mosca,William Averell Harriman, si era alzato per correggere nella sala accanto una frase dei documenti conclusivi, lasciando 13 commensali a sfidare la superstizione nelle fotografie ufficiali. In quell’angolo di Crimea dove i tre uomini più potenti del mondo in otto giorni avevano ridisegnato il profilo del pianeta dall’Europa al Pacifico, nessuno badava alla malasorte, convinti com’erano tutti del successo della Conferenza. «Qui c’è la storia nell’aria», spiegò un uomo di teatro come il tenente Norris Houghton, guardando i flash e i riflettori che illuminavano i protocolli con l’inchiostro fresco dell’intesa raggiunta tra i “Tre Grandi” per vincere la guerra e costruire la pace, nella convinzione di scrivere una nuova storia e una diversa geografia: in realtà nessuno poteva saperlo, ma quella tracciata a Jalta era l’ultima mappa del mondo.
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Un mondo sottosopra dopo cinque anni e mezzo di conflitto, con la follia nazista che aveva incendiato l’Europa. Ma tra il 12 e il 15 gennaio di quel 1945 l’Armata Rossa aveva lanciato un’offensiva lungo un fronte di 700 chilometri, da Neman fino ai Carpazi, raggiungendo il fiume Oder, occupando la zona industriale della Slesia, isolando la Prussia orientale col bilancio di 100 mila morti tedeschi, 300 mila prigionieri e 45 divisioni naziste annientate. Le truppe sovietiche ora avanzavano verso Konisberg, Poznan, Nowi Targ, mentre sul fronte Ovest il generale Eisenhower prevedeva di passare il Reno all’inizio di marzo. Sul teatro occidentale delle operazioni gli Alleati disponevano di 10 mila carrarmati e 9 mila aerei, tra cui 4 mila bombardieri con un carico di bombe di 3-5 tonnellate ciascuno. Proprio perché si profilava la vittoria per Stati Uniti, Russia e Gran Bretagna, quello era il momento di coordinare lo sforzo bellico finale degli eserciti dei tre Paesi, e soprattutto di trasformare l’alleanza militare in un’intesa politica e diplomatica che garantisse il mondo contro il pericolo di nuove guerre creando le condizioni non solo morali, ma istituzionali per aprire un’era prolungata di pace.

I “Tre Grandi” si erano incontrati per quattro giorni a Teheran a fine novembre del 1943, avevano esaminato per la prima volta congiuntamente le questioni militari più urgenti e si erano spinti ad annunciare una prospettiva di libertà e democrazia dopo la fine del conflitto, senza però assumere nessun impegno concreto: «Noi coopereremo con tutti i popoli che intendono consacrarsi all’eliminazione della tirannia e della schiavitù, dell’oppressione e dell’intolleranza, e accoglieremo nella famiglia universale delle Nazioni Democratiche tutti coloro che per libera scelta decideranno di venire da noi». C’era dunque il seme di un’alleanza che, nata per necessità nella guerra, voleva proiettarsi oltre la dimensione bellica, in un’azione di emancipazione e di riscatto dopo gli orrori del conflitto. E le tre potenze che si opponevano alla minaccia hitleriana sulla civiltà europea, assegnavano a se stesse il ruolo morale e politico di liberatori e costruttori di un nuovo ordine mondiale, che Roosevelt fin dal discorso del 6 gennaio 1941 basava sulle quattro libertà fondamentali: «di parola, di culto, di possesso, e libertà di vivere senza paura». Ma con la svolta della guerra, cresceva la necessità di coordinare le strategie militari degli Alleati, per disciplinare l’uso delle truppe e affrettare il momento della vittoria finale. Man mano che i Paesi venivano liberati, dalla Francia al Belgio, alla Grecia, a parti dell’Olanda e della Polonia, si rendevano necessarie decisioni dei Tre Grandi: che soprattutto dovevano stabilire che fare con la Germania il giorno dopo la resa, una volta divenuti arbitri del destino di quel popolo, di quel territorio e di quello Stato.
Churchill voleva un nuovo vertice a tre per garantire e intensificare «l’unità delle potenze alleate», l’arma a suo parere più potente nella guerra, e anche per evitare che il buon rapporto personale tra Stalin e Roosevelt potesse produrre a sorpresa risultati politici autonomi, non concordati sull’asse Londra-Washington. «Non ho esitato a viaggiare da una corte all’altra come un menestrello – dirà ai Comuni a fine ottobre ‘44 – ma ho sempre cantato la stessa canzone». Lo fece anche in quell’autunno, quando volò a Mosca per discutere direttamente con Stalin le questioni aperte della Polonia, della Grecia, della Jugoslavia e del Giappone, insistendo perché la Russia scendesse in campo, dichiarando guerra a Tokyo. Parlò anche dell’Italia, invitando il Capo del Cremlino a «non eccitare» i comunisti italiani, e ottenne l’ assicurazione di Stalin con un giudizio su Togliatti: «Non è un estremista, ma una persona ragionevole che non si lancerà in un’avventura». Tornò soddisfatto, dopo aver collezionato un pranzo di sei ore, il balletto di Giselle al Bolshoj, una discussione fino alle 3 del mattino con il leader russo, e dopo aver dormito nella dacia di Molotov, messa a sua disposizione dal ministro degli Esteri sovietico in segno di amicizia. Stalin lo accompagnò addirittura all’aeroporto e salì sull’aereo per il commiato. «Ho avuto una conversazione molto piacevole con il Vecchio Orso», scrisse Churchill da Mosca alla moglie Clementine. Poi aggiunse una confessione: «Più lo vedo e più mi piace».
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Anche Roosevelt si era convinto nel loro primo incontro, a Teheran, che Stalin fosse «malleabile» e che la dinamica tipica di un vertice internazionale a porte chiuse, con i leader faccia a faccia nelle discussioni ufficiali, nei momenti conviviali e nelle chiacchiere serali col brandy in mano, fosse lo strumento più utile per impostare un negoziato, ammorbidire i “niet” sovietici e arrivare a un’intesa. In un incontro di 35 minuti, Roosevelt chiese al ministro degli Esteri russo, Gromyko, di far conoscere a Stalin il suo desiderio di reincontrarlo in una Conferenza dei tre Paesi, insieme con Churchill. Ma il presidente americano aveva una motivazione in più rispetto al Primo Ministro britannico. Roosevelt infatti pensava che la pace, una volta raggiunta, non potesse essere lasciata al suo destino, con tutti i problemi del controllo dei territori liberati, ma dovesse essere “organizzata”. Non è la guerra che crea la pace, è la politica: e dopo la forza, torna in campo la diplomazia. Il disegno ambizioso del presidente – al suo dodicesimo anno alla Casa Bianca – era appunto un’organizzazione internazionale fondata sul principio dell’uguaglianza sovrana di tutti gli Stati schierati per la pace, e pronti a prestare la loro collaborazione per il mantenimento della convivenza pacifica nella sicurezza. Bisognava muoversi subito, fissando regole che superassero lo status di vincitori e vinti: l’istituzione mondiale chiamata a garantire pace e sicurezza doveva nascere prima della fine della guerra. Il fascino di questa prospettiva grandiosa, pensava Roosevelt, nel vertice a tre avrebbe prima o poi contagiato anche Stalin, che aveva avanzato la richiesta impossibile di avere nella nuova organizzazione sovranazionale 15 voti per le Repubbliche sovietiche, oltre a quello dell’Urss. In realtà il Presidente subiva inconsciamente il fascino di Stalin, pur nella totale diversità politica e antropologica che gli era ben chiara: e più ancora sentiva la fascinazione e l’ebbrezza di guidare lui il Capo del Cremlino dentro un percorso negoziale. Ma Roosevelt non avvertiva ancora, in quei mesi tra il ‘44 e il ‘45, il condizionamento della dimensione ideologica che dominava il GenSek. «Vado più d’accordo con lui – arrivò a dire – che con Churchill. Gli voglio bene, e penso che sia reciproco…». E sottovalutava, davanti alla ridefinizione dei confini che si annunciava con la fine della guerra, l’angoscia dell’anima russa per la terra, ambizione imperiale e protezione atavica che si rinnovava, dopo che Lenin nel 1918 aveva spostato la capitale da San Pietroburgo a Mosca per allontanarla dall’Europa e custodirla circondata dall’immensità della terraferma russa, il vero humus dell’impero eterno.
Anche Stalin era rimasto soddisfatto del primo vertice coi due alleati a Teheran, convinto come Roosevelt di aver fatto valere le sue ragioni. Ma ormai, un anno dopo, si sentiva più forte: i successi dell’Armata Rossa, che aveva respinto l’esercito tedesco dalla Russia portando l’offensiva davanti ai centri vitali della Germania, gli conferivano un rango internazionale di primissimo piano come liberatore dell’Europa di mezzo, e accrescevano le pretese imperiali del Cremlino sovietico nel cuore del continente, fin dove erano giunti i carri armati di Mosca, portando la bandiera rossa. Dunque il tempo lavorava per i Soviet, che guadagnavano continuamente terreno, avanzando per quasi 30 chilometri al giorno. Per questo Stalin non aveva fretta di sedersi al tavolo alleato per un primo rendiconto, anche perché col titolo di Maresciallo guidava personalmente le strategie dell’Armata e ogni notte si chinava sulle mappe circondato dai generali in riunioni che non si scioglievano prima delle cinque del mattino. Ritardò dunque il suo consenso, e utilizzò il suo impegno bellico diretto per far saltare via via tutte le proposte di città che gli venivano avanzate da Londra e Washington: no ad Atene, a Malta, a Tunisi, a Gerusalemme, a Roma, a Taormina, fino a un telegramma estenuato di Churchill a Roosevelt: «Sarà possibile far venire Zio Baffone a Cipro o a Salonicco?».
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Ma il Cremlino lasciava cadere tutte le candidature perché il GenSek soffriva di otite e non voleva volare, finché un uomo che i russi conoscevano molto bene, Harry Hopkins, inviato personale del presidente e suo consigliere ascoltatissimo, non suggerì a Gromyko l’idea della Crimea, immediatamente accettata. Jalta aveva il profilo giusto, né piccola né grande coi suoi 50 mila abitanti, clima mite, panorama sul Mar Nero, protetta e non esposta, non per caso era stata la residenza estiva preferita di Nikolaj II. A Stalin dunque l’onore del padrone di casa, mentre i due ospiti e il loro foltissimo seguito avrebbero dovuto sobbarcarsi mezzo giro del pianeta per incontrarlo «all’indirizzo più scomodo del mondo», come si lamentava Churchill. Il Maresciallo non era dispiaciuto di imporre questa corvée. Un giorno, in un colloquio con una delegazione jugoslava, confessò la sua diffidenza per i due partner occidentali: «Se non stai attento, Churchill è il genere d’uomo che ti ruberà un copeco sfilandotelo dalla tasca. Roosevelt è di un’altra pasta, allunga la mano solo per monete più grosse».
Soviet Premier Josef Stalin and British Prime Minister Winston Churchill stand among other men, talking. (Photo by © CORBIS/Corbis via Getty Images)
Soviet Premier Josef Stalin and British Prime Minister Winston Churchill stand among other men, talking. (Photo by © CORBIS/Corbis via Getty Images)
In realtà il mantello nero con cui Roosevelt avvolgeva la sua debolezza fisica dopo la poliomielite del 1921 e la sua ambizione visionaria, nascondeva qualcosa di più del calcolo di un abile borseggiatore. La carta coperta del presidente americano era infatti la fine del mondo: la bomba atomica, coperta dal segreto assoluto. Solo tre generali e il Segretario alla guerra, Stimson, erano stati informati del lavoro degli scienziati: oltre a Churchill, naturalmente. Mentre si preparava la Conferenza di Jalta, un mattino dopo la prima colazione Roosevelt svelò il progetto nucleare al Segretario di Stato, Edward Stettinius: vago sui tempi, perché si stavano ancora perfezionando i risultati, fu molto chiaro nello spiegare che la nuova arma poteva rivoluzionare il mondo: «Non manca molto, e sarà possibile far cadere la bomba per esempio nella 42° strada, a Broadway, e l’esplosione raserebbe al suolo l’intera città di New York». C’era dunque un doppio fondo nel piani americani per passare dalla guerra alla pace, la vertigine scientifica dell’arma totale, l’esplosione definitiva che usciva dalla mitologia guerresca e diventava l’ armamento della fine, incaricato di incenerire il futuro.
Ma adesso il presente autorizzava una speranza, anche se i Tre Grandi viaggiavano verso Jalta con tutte le misure di precauzione consigliate dai servizi segreti in tempo di guerra. Il Segretario Generale scendeva da Mosca su un treno fantasma che non si fermava alle stazioni, il Primo Ministro e il presidente volavano da Malta, dove si erano incontrati, con le luci degli aerei spente e il silenzio radio assoluto. «Avevamo il mondo ai nostri piedi, venticinque milioni di uomini che marciavano ai nostri ordini per terra e per mare», scriverà più tardi Churchill, ripensando a quel momento nei giorni in cui la speranza di Jalta si era già decomposta in delusione. Poi aggiunse, probabilmente con un sospiro tra il fumo del sigaro: «Sembravamo amici».
1. continua
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La Packard nera Super Eight avanzava tra le fontane e le aiuole, lucida e monumentale col suo fregio alato proteso in alto sul cofano come un araldo che annunciava l’arrivo del GenSek, i fari gialli fendinebbia, la ruota di scorta appesa al parafango destro: poi rallentò nella curva, per frenare alle quattro del pomeriggio davanti ai tre archi bianchi all’ingresso di Palazzo Livadia. Due leoni di pietra sorvegliavano indifferenti.
Josif Stalin scese dalla limousine insieme al commissario agli Esteri dell’Urss, Vjaceslav Molotov, e portò la mano alla visiera del cappello nel saluto militare. Indossava la divisa di Maresciallo dell’Armata Rossa, con un’unica decorazione, ma era anche Presidente del Sovnarkom, il Consiglio dei ministri dell’Urss creato da Lenin, e naturalmente Segretario Generale del Pcus, il partito comunista sovietico, centro nevralgico del potere nelle Russie. Quella domenica lui era il padrone di casa. 
Veniva nella residenza degli zar mezz’ora prima dell’inizio ufficiale della Conferenza in visita di cortesia, per dare il benvenuto al suo principale interlocutore e alleato, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt. C’era tempo soltanto per i convenevoli, e Roosevelt ringraziò per l’ospitalità magnifica, dicendosi colpito per la profondità delle distruzioni fatte dai tedeschi in Crimea. «Non è nulla rispetto a quel che è successo in Ucraina», replicò Stalin. Parlarono ancora di de Gaulle, e Stalin raccontò che nel recente incontro a Mosca il Generale si era paragonato a Giovanna d’Arco come capo spirituale della Francia e a Clemenceau come capo politico: «Non ha il senso della realtà», spiegò. Poi, al momento di uscire dallo studio per raggiungere la sala da ballo sede della Conferenza, chiese a Roosevelt, come se proseguisse il discorso: «Ma perché volete dare una zona d’occupazione in Germania alla Francia?». Roosevelt abbassò la voce, come se confidasse un segreto, e guardando in su dalla sedia a rotelle rispose: «Per bontà».Era invece per orgoglio che Stalin aveva voluto ospitare la delegazione americana nel palazzo degli zar, inagibile dopo i saccheggi e la devastazione dei soldati nazisti in ritirata che avevano distrutto mobili e arredi, stracciato tende, svuotato gallerie e saloni. Ma Stalin aveva deciso che quella doveva essere la dimora del presidente degli Stati Uniti, così tre alberghi di Mosca furono associati all’operazione e dovettero cedere specchi, divani, tavoli e letti, tappeti, armadi, lampade e stoviglie che restituirono a palazzo Livadia il suo splendore imperiale. A Roosevelt fu assegnata la stanza da letto dello zar al pian terreno, vicino a quella della figlia Anna (che sorvegliava silenziosamente la salute del padre) e alla camera del medico, l’ammiraglio Ross McIntire, mentre il comandante in capo della flotta americana King dormiva nel budoir della zarina Alix al secondo piano. Bastava attraversare l’atrio per trovare il barbiere e la manicure, mentre la prima colazione era servita sulla terrazza al sole, davanti al mare. Il sistema di vigilanza era doppio, anzi triplo. La scorta armata britannica accompagnava Churchill nei suoi spostamenti e non lo perdeva di vista nemmeno nelle sale e nei corridoi della conferenza, la guardia presidenziale americana presidiava il parco e le strade di accesso a palazzo Livadia, anche se durante la sessione plenaria, coi tre leader insieme, il traffico veniva deviato per precauzione. Sul tetto, comunque, vigilavano i tiratori scelti sovietici.Churchill e il seguito britannico si sistemarono a mezz’ora di distanza, nella villa Vorontsov costruita cent’anni primada un architetto inglese in una mescolanza di stili, con richiami gotici ed elementi orientali, influenze tartare, un gabinetto cinese, una sala da pranzo col soffitto in quercia e un parco di 40 ettari con la serra. Per la squadra russa, la più numerosa, Stalin scelse villa Koreis, imponente, magica e seducente, soprattutto perché era appartenuta al principe- conte Felix Jusupov, discen dente dei dignitari del Khan Tamerlano e del camerlengo di Pietro il Grande, sposo della nipote dello Zar Irina Alexandrovna (la donna più bella di San Pietroburgo) e soprattutto assassino del santo-diavolo Grigorij Rasputin, il monaco guaritore che strumentalizzando la nevrastenia religiosa della zarina manovrava la Corte e il governo prima della rivoluzione: così l’ombra di Rasputin, che secondo la leggenda nera affiorava ad ogni svolta della Russia, riuscì ad allungarsi fino a Jalta.Le cucine erano al lavoro dal mattino presto. Per le cene ufficiali, che a turno ogni delegazione organizzava invitando le altre nella sua residenza, era già arrivato da tre giorni lo chef in capo del Cremlino, Sidor Cirilovic Kriukov, con due aiutanti, sedici tonnellate di caviale in tre vagoni, un carico di champanskoye sovietico pronto ad alternarsi con la vodka nei duecento brindisi che negli otto giorni i Tre Grandi si dedicheranno a vicenda, e per finire una scorta abbondante di russki konyak. Il tavolo era rotondo, con quindici sedie. Stalin sembrava circondato e protetto dai suoi, con a destra il ministro degli Esteri Molotov e l’ammiraglio Kuznetzov, ministro della Marina, e a sinistra il capo di Stato Maggiore generale Antonov e il maresciallo Khudyakov, capo dell’aeronautica. Poi seguivano gli americani, l’ammiraglio Leahy, Capo dello Stato Maggiore congiunto, il Segretario di Stato Stettinius seduto accanto a Roosevelt, affiancato dall’altro lato dal generale Marshall, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e dall’ ammiraglio King, comandante della Flotta. Quindi gli inglesi, con il maresciallo dell’Aria Portal,il ministro degli Esteri Eden, il Primo Ministro Churchill, il visconte Brooke, coordinatore delle forze britanniche e il maresciallo Alexander, comandante supremo delle forze alleate nel Mediterraneo.Molti militari, c’era pur sempre la guerra: ma fu l’unica volta, perché dal secondo giorno della Conferenza gli Stati Maggiori si riunirono ogni mattina in un vertice separato con un loro ordine del giorno e non presero più parte alle sessioni plenarie. Alle spalle della prima fila si era formata una piccola folla, perché tutti volevano partecipare a quel momento storico, con le tre potenze riunite per portare il mondo fuori dalla guerra. Ambasciatori come Gromyko, Harriman, Gusev, consiglieri plenipotenziari come Hopkins, malatissimo, che si era alzato dal letto soltanto per vedere Roosevelt alla prova dei “Grandi”, bolscevichi potenti come il Procuratore dell’Urss Andrej Januar’evi? Vyšinskij, che aveva istruito l’ondata di processi-farsa con la condanna a morte dei vecchi compagni di Lenin come Zinoviev, Kamenev, Bukharin. Per due ore quel primo giorno si affacciò ai bordi del tavolo persino il volto pallido di Lavrentij Pavlovic Berija, Commissario generale della Sicurezza dello Stato, ministro dell’Interno ma conosciuto da tutti come capo della GPU, la polizia segreta sovietica. Poi nessuno lo vide più: faceva parte del “comitato coperto” che controllava la Conferenza rimanendo dietro le quinte, una sorta di regia occulta che senza mostrarsi calcolava rischi e opportunità mentre affioravano al tavolo ufficiale. Non era prevista una traduzione simultanea, e ogni delegazione aveva il suo interprete: il maggiore Birse per gli inglesi, il russo Pavlov per i sovietici, il diplomatico Bohlen per gli americani traducevano frase per frase, una proposizione alla volta, si andava avanti a singhiozzo, lentamente, e quando le voci si intrecciavano non si capiva niente. Stalin giocò la sua prima carta in apertura, mascherata da mossa di cortesia, proponendo che fosse Roosevelt a presiederela Conferenza, in quanto era contemporaneamente capo del governo e capo dello Stato, mentre lui e Churchill guidavano soltanto i rispettivi governi, e il presidente russo Kalinin e il re inglese Giorgio VI non partecipavano al vertice. Ineccepibile, dal punto di vista diplomatico e del riguardo al rango. Ma in realtà era un’operazione politica ben ponderata, che puntava – come Stalin farà per tutta la Conferenza – a separare e distinguere le posizioni dell’America e della Gran Bretagna, o almeno ad evitare che si saldassero necessariamente isolando ogni volta la Russia. In effetti in questo modo Roosevelt veniva attirato verso il centro del tavolo, in una zona neutra più da mediatore e meno da parte in causa, spinto dalle circostanze a privilegiare spesso il ruolo di conciliatore rispetto a quello di sostenitore della causa americana.Non solo: con Roosevelt vincolato dal compito di arbitro, Churchill si trovava costretto e autorizzato a tenere testa direttamente a Stalin, con ironia, con insofferenza, con testardaggine, alzando più volte la bandiera dei valori democratici di libertà, oltre naturalmente alle insegne dell’impero britannico. Due relazioni militari aprirono la Conferenza, con un quadro completo del fronte di guerra. Il generale Antonov riepilogò l’offensiva sovietica d’inverno e il generale Marshall illustrò la situazione sul fronte occidentale: si trattava adesso di coordinare per la prima volta i piani d’azione bellica, nelle riunioni quotidiane dei tre vertici militari. Ci furono almeno due dozzine di brindisi. Nel primo Churchill celebrò le tre potenze che «dopo aver lottato e versato il loro sangue, potevano garantire la pace per cent’anni». «Sono d’accordo – replicò Stalin – tocca a chi ha sopportato lo choc della guerra preservare la pace. Sarebbe ridicolo pensare che un piccolo Paese come l’Albania possa avere una voce uguale a uno dei Tre Grandi». «La maggior responsabilità della pace pesa certamente su di noi – precisò Roosevelt – ma è un potere da esercitare con moderazione, rispettando i diritti delle piccole nazioni». «Desiderate forse – chiese polemicamente Stalin – che Paesi come la Jugoslavia e l’Albania siedano a questo tavolo? E che hanno fatto per meritarlo?». A questo punto Churchill recitò la sua prima parabola: «L’aquila deve permettere ai piccoli uccelli di cantare, senza preoccuparsi della ragione per cui cinguettano». Poi, con un sorriso che nascondeva la provocazione, brindò «alle masse proletarie del mondo»: «Mi si considera regolarmente un reazionario – spiegò – ma qui io sono l’unico leader che può essere licenziato in qualsiasi momento dal voto del suo popolo, e mi glorio di questo pericolo». «In realtà sembrate temere le prossime elezioni» insinuò maliziosamente Stalin. «Non solo non le temo – rispose il Primo Ministro – ma sono fiero che il popolo britannico possa cambiare il suo governo ogni volta che lo giudichi utile».Poi cena americana per tutti, con pollo fritto e verdura: ma a un certo punto tornarono al tavolo caviale e storione, annunciando la vodka. Ancora brindisi, finché Roosevelt giudicò che era venuto il momento di una confidenza. «Sapete – disse a Stalin – io e Churchill nei nostri cablogrammi parliamo di voi con un nomignolo amichevole, Zio Joe». Il capo sovietico sembrava stupito, chiese perché. Ma Molotov alzò il bicchiere: «Non ingannatevi. Noi lo sappiamo da due anni». Prima della buonanotte Anna Roosevelt, Sarah Churchill e Kathleen Harriman, figlia dell’ambasciatore americano a Mosca organizzarono per il giorno dopo una gita in automobile a Sebastopoli. Al mattino la scorta le seguiva a distanza, mentre visitavano le rovine, camminavano nel centro della città, si spingevano nella zona del porto all’ora di pranzo, accompagnate dalla curiosità dei passanti. Prima di risalire in auto a fianco dell’autista Spaman, Anna si avvicinò ad un gruppo di ragazzi, aprì la borsetta tirando fuori una tavoletta di cioccolata, per porgerla a una bambina.Poi la limousine è ripartita, mettendo fine all’unica breve parentesi turistica nella settimana del vertice di tre giovani donne che non avevano alcun ruolo politico nella partita negoziale, perché non facevano parte delle delegazioni ufficiali e non partecipavano alle sedute plenarie. Ma in quei giorni a Jalta tutto, compresi i gesti privati, finiva inevitabilmente sulla bilancia della diplomazia in equilibrio precario e delicatissimo tra i Tre Grandi: non c’erano zone neutre, soggetti irresponsabili, spazi franchi, e anche ciò che avveniva fuori dal tavolo ufficiale della Conferenza poteva ripercuotersi sulla trattativa, influenzandone il clima e il risultato. Così appena rientrata a palazzo Livadia Anna Roosevelt ricevette la visita di una ragazza in uniforme, che le riconsegnò la tavoletta, spiegando che «ai bambini russi il cibo non manca». L’intesa fra le tre potenze alleate, con gli eserciti schierati e la bomba pronta ad uscire dal segreto per la sua missione di sterminio universale, aveva appena rischiato di inciampare in una trappola di cioccolata.

2. continua
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