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 2025  gennaio 10 Venerdì calendario

Castellina giocava a tennis con la figlia di Mussolini

«Dovevano essere pressappoco le sette di sera. A luglio, a quell’ora, è ancora giorno, anche se le ombre della pineta che circondava il tennis avevano cominciato ad allungarsi. Ricordo che il campo era ombroso mentre io e Anna Maria ci tiravamo palle inesperte oltre la rete». Inizia così, come una scena rubata a Il giardino dei Finzi-Contini, il capolavoro dello scrittore ferrarese Giorgio Bassani, il memoir di Luciana Castellina, La scoperta del mondo, ripubblicato di recente da nottetempo. Militante, politica (è stata deputata ed eurodeputata), scrittrice, giornalista e fondatrice de Il manifesto, Castellina oggi ha 95 anni e porta ancora in giro per l’Italia le sue memorie, vive e cristalline proprio come se fossero accadute la settimana prima. La scoperta del mondo però è più di un’autobiografia: l’autrice stessa lo definisce «un diario politico», iniziato il 25 luglio del 1943 dopo una partita di tennis memorabile. Che cosa accadde quel giorno? «L’Anna Maria con cui mi tiravo palle faceva di cognome Mussolini. Era stata mia compagna di scuola dalla prima elementare fino alle medie – tranne un anno nel quale mi ero trasferita a Verona con la famiglia. Nell’estate del 1943 ci eravamo reincontrate per caso a Riccione, dove io non ero mai stata, e dove invece la sua famiglia aveva una casa di vacanza, Villa Mussolini, che aveva anche un campo da tennis (oggi ha mantenuto lo stesso nome e ospita mostre ed eventi culturali; tutt’ora è possibile prenotare un campo, ndr). Mentre stavamo giocando, erano arrivate delle guardie del corpo e l’avevano portata via in tutta fretta. Solo più tardi abbiamo saputo che suo padre era stato arrestato a Roma. Proprio quel giorno mi venne l’idea di cominciare a tenere un diario che iniziai con le parole: “Oggi è caduto il fascismo”. Non so perché usai quel termine, come se fosse caduta una pera cotta quando invece dietro quell’evento c’era una storia molto più grande». Nel libro di Bassani è il tennis, ancor prima delle conseguenze delle leggi razziali (il romanzo è ambientato nel 1938) ad aprire al protagonista le porte di casa Finzi-Contini. Ha avuto lo stesso ruolo anche per lei? «Non proprio. Casa Mussolini non era una fortezza inespugnabile. Nei tanti anni in cui siamo state in classe insieme, io e altre compagne siamo state invitate spesso a Villa Torlonia, dove i Mussolini abitavano a Roma. Qualche volta mi è capitato di vedere da lontano donna Rachele, madre di Anna Maria, e una volta pure Mussolini. La prima volta che andai, al cancello d’ingresso mi chiesero le mie generalità e se mio padre fosse iscritto al partito fascista. Quando dissi che non lo era, il poliziotto storse il naso, ma poi mi lasciò tranquillamente entrare». Ha giocato altre volte con Anna Maria? «No, è capitato solo quella volta a Riccione. Anna Maria aveva avuto una paralisi infantile che le aveva lasciato delle conseguenze tra cui qualche difficoltà negli sport. Quella fu la penultima volta che la vidi, perché poi la incontrai di nuovo dopo la guerra, nel ’46. Lo ricordo bene perché nel frattempo era cambiato il mondo, ma lei, commentando la fine del fascismo, aveva pronunciato di nuovo una frase che, con la sua tipica strafottenza, ripeteva sempre in classe, e cioè: “Papà dice sempre che il re è un cretino”, affermazione che ogni volta gettava il nostro professore nel panico». Era diffuso il tennis in quegli anni? «Non era certo uno sport popolare ma, come ci ricorda la storia dei Finzi-Contini, molto praticato dagli intellettuali. Era uno sport che veniva dall’estero e che per questo gli intellettuali conoscevano. Anche alcuni dirigenti del Pci ci giocavano – Ingrao, Natoli, Reichlin, e altri –, e lo facevano tutti allo stesso circolo, il Venturini di via Gramsci, dove, da giovanissima, andavo anch’io. La pratica continuò anche quando la Camera dei Deputati creò il proprio circolo sportivo all’Acqua Acetosa, dove il tennis era il punto focale e che diventò un luogo di ritrovo della sinistra. Lì potevano andare a giocare anche i nostri figli molti dei quali, da quando il circolo ha aperto anche a soci non parlamentari, giocano tutt’ora. Mio figlio compreso». Torniamo al 1943: lei scrive che quell’episodio fu la sua “iniziazione alla politica”. «Sono grata ad Anna Maria anche per questo: fu lei la prima a farmi capire che la politica era una cosa complessa. Era provocatoria nella sua spregiudicatezza e utilizzava il privilegio di essere figlia di Mussolini in modo avventuroso. Per esempio, quando nei compiti in classe lei pigliava 8 e gli altri 5, si alzava dal banco e diceva: “Come mai io ho preso 8 e la mia compagna di banco 4, quando io ho copiato interamente da lei?". Mi ha insegnato che sulle cose si possono avere pareri diversissimi». Lei continua tutt’oggi la sua militanza politica intervenendo anche sui temi più attuali. Quali ritiene più urgenti? «La crisi ecologica, che è totalmente sottovalutata. Ogni giorno ormai succede un disastro per riparare il quale ci vogliono miliardi di euro, ma nonostante questo nessuno vuole occuparsene seriamente. Chi vorrebbe farlo, poi, viene accusato di essere “ideologico”, che è un modo per mettere tutto sotto terra, cosa che da un certo punto di vista è anche comprensibile perché è spaventoso parlare di queste cose. Affrontare davvero il problema significherebbe cambiare in toto il modo in cui viviamo. Non si può più continuare a produrre merci superflue perché la Terra si sta esaurendo. Il che non vuole dire tornare all’età della pietra, perché oggi abbiamo i mezzi per potere sopravvivere». Da che cosa si dovrebbe ripartire, quindi? «Il pericolo più grave, oggi, è il disimpegno. Per ciò bisogna tornare alle esperienze reali, che sono state la forza dei partiti del passato. La politica era quella cosa in cui ciascuno si sentiva soggetto, protagonista. La sezione del partito era il posto in cui ci si impegnava a fare tutto quello che lo Stato non faceva: le feste per i bambini della borgata, lo sport per chi non poteva permetterselo. Bisogna uscire dalla convinzione che ormai “non ci sono alternative” e costruire una nuova fiducia. Ma questo può succedere solo ripartendo dal territorio, dai quartieri, che devono diventare spazi dove sia possibile socializzare, dove si possa riorganizzare il lavoro di cura, dove i giovani possano ritrovarsi per parlare e ragionare, dove anche i pensionati abbiano un ruolo basato sulla loro esperienza, quello di educatori. Bisogna rammendare la città e fare in modo che quello che è già stato costruito torni a essere umano».