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 2025  gennaio 10 Venerdì calendario

«Mio marito Ahmad dimenticato a Evin»

Il loro incubo dura da 3.181 giorni, da quando suo marito Ahmadreza Djalali, medico e ricercatore universitario, è stato inghiottito da una cella del carcere di Evin, lo stesso dove era rinchiusa la giornalista Cecilia Sala. Rischia a ogni minuto di essere impiccato, con l’accusa di spionaggio per Israele, e in questi otto anni e nove mesi è stato più volte portato al patibolo in sadiche messe in scena della condanna a morte, si è ammalato, ha perso venti chili e molti denti, ha denunciato minacce e percosse. La moglie, Vida Mehrannia, non ha mai smesso di combattere per la sua liberazione e si appella all’Ue e all’Italia dove la famiglia ha vissuto quando Djalali lavorava a Novara per l’Università del Piemonte orientale: «Salvate Ahmad, è uno scienziato, non una spia. È il cittadino europeo da più tempo in un carcere iraniano». Ahmadreza Djalali è stato arrestato il 25 aprile del 2016 mentre si trovava nel suo Paese di origine su invito dell’università di Teheran per un convegno sulla Medicina dei disastri, settore in cui era specializzato e per cui aveva svolto ricerche in Belgio e in Italia, al centro Crimedim di Novara. Aveva abitato qui dal 2012 alla fine del 2015 quando si era trasferito in Svezia, dove vivono ancora la moglie e i due figli Amitis, 23 anni, e Ariou, di 14, e dove gli è stata concessa la cittadinanza. Il 21 ottobre 2017 è stato condannato a morte con l’accusa di aver fornito a Israele informazioni su siti nucleari, ma dal carcere di Evin era riuscito a far arrivare a La Stampa un documento in cui raccontava come l’arresto fosse ritorsione per essersi rifiutato di collaborare con loro Servizi.Vida Mehrannia, qual è la situazione di suo marito?«È un ostaggio. Lo accusano di spionaggio, ma non hanno mai avuto alcuna prova contro di lui. Lo hanno condannato a morte e ogni giorno può essere eseguita la sentenza, come hanno minacciato più volte di fare».Come sta?«Le condizioni disumane della detenzione hanno gravemente minato la sua salute: ha bisogno di cure urgenti che non riceve. Oltre a numerose malattie fisiche, Ahmadreza soffre anche di una profonda depressione. Potrebbe non sopportare ancora a lungo la prigionia così dura».Che contatti riuscite ad avere?«Adesso ci può telefonare ogni tanto, ma in passato siamo rimasti per due anni senza la possibilità di sentirci. Ha chiamato nei giorni scorsi: aveva saputo della detenzione di Cecilia Sala ed era molto addolorato per lei».Il nome di suo marito era stato fatto in relazione alle trattative tra Iran e Svezia dopo la condanna a Stoccolma del funzionario di Teheran, Hamid Nouri, per le stragi avvenute negli anni ’80 proprio a Evin: che cosa è successo poi?«Lo scambio è avvenuto a giugno dell’anno scorso tra Nouri e due cittadini svedesi, ma Stoccolma ha lasciato Ahmad a Evin, nonostante lui abbia la doppia nazionalità svedese e iraniana. Credo che sia stato profondamente ingiusto: mio marito è un cittadino europeo che rischia la vita ogni minuto. Mi appello all’Unione europea e al ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani perché riporti mio marito da noi. Aspettiamo da nove anni. Abbiamo vissuto felicemente a Novara: è la nostra seconda casa, lì Ahmad è stato nominato cittadino onorario e abbiamo ancora amici e colleghi meravigliosi che ci hanno sostenuto e aiutato tanto in questi anni. L’Italia può riportare la gioia nella nostra famiglia».Come è riuscita a resistere in questi lunghi anni?«È molto doloroso, mi fa male anche solo parlare di questo incubo. Ma combatterò ogni giorno fino al momento in cui Ahmadreza sarà liberato».