la Repubblica, 10 gennaio 2025
Il kolossal diventa reale e divora il Sunset Boulevard
Così dev’essere l’inferno: nell’anticamera dell’Hotel Tramonto, in attesa di entrare, una donna che si era arricchita facendo l’agente dei divi siede smarrita, con un cane al guinzaglio, accanto a un uomo anziano che tiene ancora in mano il tubo da giardinaggio con cui cercava di salvare casa dalle fiamme. Sconosciuti, come erano stati a Los Angeles, loro e altri dieci milioni di individui che fecero dire alla voce narrante, all’inizio di Crash, Oscar nel lontano 2006: «Qui non c’è contatto fisico con nessuno: stiamo tutti dietro vetro e metallo. Ci schiantiamo contro gli altri per sentirne la presenza». In alternativa, ci si fa divorare dal fuoco. Si esce gocciolanti dalle piscine che, nella visione rivelata dall’aereo in atterraggio, punteggiano le abitazioni come virgole un discorso frammentato; si corre lungo le strade per sopravvivere, non per mantenersi in forma («qui non puoi invecchiare, è quasi un crimine», ha detto l’attrice Marisa Tomei, lei pure premio Oscar); si cerca riparo portandosi la cassetta con l’occorrente per l’emergenza che tutti tengono sotto il letto: abituati all’attesa, impreparati all’evento.Non esiste confine tra la predizione e l’avveramento, tra la realtà e la finzione, non per chi vive qui. La star di un reality show ha filmato e postato il crollo della sua casa: avrà capito che non era una messinscena? Tutti quelli che rivolgono al cielo sguardi pieni di speranza che cosa aspettano? Il vento del cambiamento o i titoli di testa per potersi dire, con sollievo: era soltanto un film. I media già suggeriscono titoli da kolossal del disastro: Ring of fire (Anello di fuoco) è il migliore. My city of ruins, la mia città di rovine, l’ha già usato Bruce Springsteen, cantando a New York, per le vittime dell’11 settembre. Chi a New York ci vive detesta Los Angeles e viceversa. Tutti quelli in mezzo votano Trump. In Io e Annie il personaggio interpretato da Woody Allen si stupisce andando a piedi dall’auto alla casa poiché le suole delle sue scarpe, dal momento dell’arrivo, non avevano toccato asfalto. Fran Lebowitz suggerisce l’esistenza di un solo altro mezzo di trasporto: l’ambulanza. Ora le sirene si possono sentire ovunque. Chi viene dalla costaorientale trova Los Angeles priva di personalità o con quella di un «bicchiere di carta», secondo Raymond Chandler: lo svuoti e non spegne neppure un falò. La vede di plastica, come troppe parti di corpi chirurgicamente modificati. Pulita, certo, ma solo perché (ancora Woody Allen) «l’immondizia non la buttano via, la mettono negli show televisivi». Ora però li hanno fermati: da Grey’s anatomy a Ncis, come quando scioperano gli attori, che non stanno davanti alle telecamere, ma alle ceneri delle loro ville, da Michael Keaton a Paris Hilton. A Palisade il prezzo medio delle abitazioni a dicembre era di tre milioni e trecentomila dollari. Più l’assicurazione, obbligatoria e opportuna. Il fuoco è ’a livella di L.A.: ha bruciato la sinagoga di Pasadena e la chiesa del Corpus Christi.L’incendio, a differenza del terremoto, non ha un epicentro e Los Angeles, diversamente dalla maggior parte delle città, non ha un centro. Si sdraia pigra verso l’oceano, sale la collina, si snoda lungo strade parallele. Santa Monica, Malibu, Laurel Canyon, sono nomi che sembrano inventati dal cinema: invece li ha presi in prestito e mai più restituiti. Ci fosse un cuore, e non soltanto arterie, sarebbe Sunset Boulevard, il viale del tramonto che sta sfociando nella distruzione. Lì tutto è un film. Nel periodo che ci ho trascorso ho cenato accanto a Jennifer Lopez da Asia de Cuba e scortato Sofia Loren alla cerimonia degli Oscar che avrebbe incoronato Roberto Benigni. Mi sono rasato da un sosia dell’ispettore Derrick, che esibiva muto un affilato rasoio d’oro. L’unico con cui abbia intrattenuto una conversazione è stato il tizio che mi ha investito mentre ero fermo a un parcheggio: crash. Tutti conoscono Sunset Boulevard, anche quelli che non ci sono mai stati. Andarci è una tappa del pellegrinaggio nel deja-vu che conduce al Teatro cinese, sulla Walk of Fame, il marciapiede con le stelle dedicate alla celebrità, e sotto la scritta Hollywood. Qualcuno si spinge fino allo stadio di Pasadena, dove Baggio sbagliò un rigore. Chi si concede questo tour rimane deluso: è come un panino del fast food visto nella pubblicità o dal vero. Il privilegio sarà esserci stati, ora che queste attrazioni sono aggredite dalle fiamme. Nel ricordo come nella finzione ogni cosa splende, inalterata, finché la proiettiamo. La realtà coniuga soltanto il presente, colpisce con la forza del futuro prossimo questa non-città troppo estesa (1300 chilometri quadrati) con troppe agenzie (10) dedicate all’impossibile missione di proteggerla. «Los Angeles ha il clima della catastrofe, dell’apocalisse», ha scritto Joan Didion, ben prima di quest’anno trascorso in cui non ha piovuto che qualche lacrima negli ultimi otto mesi, piazzando un arido tappeto di micce davanti al primo cerino, accostato alle labbra di chi nega che il cambiamento climatico sia un problema. La sua natura è la sua condanna, ma non è colpa sua, l’hanno disegnata così: calda, tutta colline e avvallamenti dove il fuoco può galoppare e i venti sospingerlo. A questo si aggiunge la vulnerabilità, allegata alla fama: puoi bruciarti in 27 anni o in una settimana di gennaio, mentre a New York sta per nevicare.