Corriere della Sera, 10 gennaio 2025
Abedini chiede il braccialetto elettronico
Milano – Mohammad Abedini Najafabani rilancia. E per convincere i giudici della V Corte d’appello di Milano che non devono temere il rischio di fuga in caso di concessione degli arresti domiciliari, in una istanza difensiva del proprio avvocato Alfredo De Francesco il 38enne ingegnere iraniano – di cui gli Stati Uniti vogliono l’estradizione – offre la disponibilità a farsi applicare il braccialetto elettronico. E se la settimana scorsa la Procura generale aveva ritenuto insufficiente la «garanzia» diplomatica di un appartamento di proprietà del consolato iraniano, la difesa propone in alternativa un altro appartamento milanese preso in affitto direttamente dall’avvocato.
I giudici decideranno nei 5 giorni liberi successivi all’udienza fissata per mercoledì 15 gennaio, dunque per coincidenza entro l’insediamento di Trump come neo presidente Usa. Si vedrà in udienza se la procuratrice generale Francesca Nanni, contitolare del fascicolo con la collega Laura Gay, muterà o meno il proprio (non vincolante) parere contrario: va però ricordato che nel 2023 i domiciliari all’imprenditore russo Artem Uss erano stati concessi dalla Corte d’appello (nonostante la contrarietà della Procura generale) proprio con il teorico supplemento di sicurezza del braccialetto elettronico, che tuttavia non aveva impedito l’evasione del russo di cui gli Stati Uniti chiedevano l’estradizione.
Abedini Najafabani, per il quale oggi nel carcere di Opera è autorizzata (se vorrà) la visita anche dell’ambasciatore iraniano insieme a quella del legale, è stato fermato il 16 dicembre a Malpensa (proveniente da Istanbul) su mandato d’arresto spiccato tre giorni prima dagli Usa, che lo accusano di aver supportato Teheran (tramite la società svizzera Illumove) nell’acquisizione di componenti tecnologiche a duplice uso civile e militare montate sui droni in uso ai pasdaran, come quello che il 28 gennaio 2024 uccise in un avamposto giordano tre soldati americani.
Se si accede alla tesi che il rilascio a Teheran della giornalista italiana Cecilia Sala sia avvenuto nel quadro di una triangolazione con gli Usa, e che il «pacchetto» contempli il destino di Abedini Najafabani così a cuore dell’Iran, allora le strade possibili – nel caso la Corte d’appello tra il 15 e 21 gennaio gli neghi gli arresti domiciliari – sono solo due: entrambe politiche, in capo al ministro della Giustizia Carlo Nordio, ma con tempi molto differenti.
La prima è che il ministro eserciti la facoltà (riconosciutagli in qualunque momento dalla legge in materia estradizionale) di chiedere ai giudici di revocare intanto la custodia cautelare, liberando l’iraniano nelle more dell’iter di estradizione: opzione che Nordio sinora non ha attivato, forse anche per l’imbarazzo di dover contraddirsi a distanza di pochi giorni dalla richiesta di tenere l’iraniano in custodia cautelare, inviata ai giudici il 20 dicembre. La seconda occuperebbe invece molto più tempo, potendo arrivare solo alla fine di tutta la procedura (che può durare sino a un anno): nel caso i giudici concedessero l’estradizione agli Stati Uniti, infatti, il ministro avrebbe il potere di negarla con atto di discrezionalità politica. «È prematuro» esprimersi, ha detto ieri Nordio al Tg1, «le vicende sono parallele ma non congiunte», sull’iraniano «è fissata un’udienza. Aspettiamo la Corte».