La Stampa, 20 novembre 1978
Dico tutto, tanto poi smentisco. Le interviste agli uomini politici
Dico tutto, tanto poi smentisco. Il malcostume di certe interviste «concesse» dagli uomini politici.
«Qui lo dico, e qui lo nego». Oppure: «Io non ho detto niente», «Naturalmente tutto questo è off the records». «Taccia la fonte», «Niente virgolette». O anche: «Senti altri due o tre. Cosi non si capisce che te l’ho detto io». «Guardi che sarei costretto a smentire». L’intervista al ministro dell’Industria democristiano Donat-Cattin pubblicata nei giorni scorsi dalla Stampa ha introdotto nel nostro costume politico giornalistico due novità interessanti. Come non capita spesso, e a conferma della funzione civile che i giornali potrebbero svolgere, ha avuto un effetto politico positivo; prima dell’intervista Donat-Cattin rifiutava di dare le dimissioni se il ministero dell’Industria non veniva passato a un amico suo, dopo ha dovuto arrendersi.
Nell’occasione, è stata pure inaugurata la smentita su ordinazione, nuova variante della smentita preventiva («Qui lo dico, e qui lo nego») o della smentita semplice («Mai dissi quanto mi viene attribuito») da sempre caratterizzanti i rapporti tra intervistatore e intervistato politico: letta l’intervista, il segretario democristiano Zaccagnini ha pubblicamente intimato a Donat-Cattin di smentirla, il ministro ha smentito, alla smentita nessuno ha creduto. Tutto bello chiaro, aperto, ufficiale.
È la prima volta che succede: ma quell’intervista ha suscitato grande clamore anche perché appartiene a un genere quasi scomparso. Cos’è infatti oggi, nel costume corrente, un’intervista politica? All’origine, era un mezzo di comunicazione tra il politico e i cittadini: al giornalista, il ministro o il segretario dichiarava quanto gli premeva far sapere alla gente. L’intervista rifletteva un rapporto verticale, il leader parlava dall’alto alla base degli elettori: ma se il giornalista era bravo e non servile, poteva farsi tramite delle critiche, delle obiezioni, della polemica, degli interrogativi popolari.
Adesso, nel crescente elitarismo e nel ridursi della politica ufficiale a un gruppo sempre più ristretto di persone, l’intervista riflette soprattutto un rapporto orizzontale, è soprattutto un mezzo di comunicazione tra politici, uno strumento della dialettica politica al vertice, un mezzo d’informazione, di pressione di provocazione o magari di ricatto tra leaders e si distingue in tre tipi: intervista mafiosa, intervista programmatica, intervista promozionale.
L’intervista mafiosa è un avvertimento. Parlando del caso Moro, il segretario socialista Craxi dichiara al giornalista: «Conservo di quei giorni terribili non solo memoria esatta, ma anche molte annotazioni»; subito i democristiani rimbeccano controdichiarando: «Pure noi conserviamo gli appunti delle riunioni con la delegazione socialista». Traduzione: «Attenti o vi svergogno, ho i documenti»; «Attento a te, il dossier ce l’abbiamo pure noi». Nell’intervista mafiosa, il linguaggio diretto e obliquo, cifrato e minaccioso, che lancia e rilancia segnali negativi, tradisce il gioco di potere e un costume non democratico: i potenti dialogano tra loro attraverso i giornali, in un colloquio da cui i cittadini sono esclusi.
L’intervista oracolare o programmatica è un’informazione. Serve al leader per comunicare ai lettori o ascoltatori, ma soprattutto agli altri leaders e alla propria base, un cambiamento di linea politica, una «svolta», una diversa disponibilità, nuove intenzioni o fermi ultimatum. È attraverso un’intervista che Berlinguer informa del mutato atteggiamento del suo partito nei confronti della Nato; con un’intervista Lama fa sapere all’inizio dell’anno ai lavoratori e alla Confindustria che non considera più il salario una variabile indipendente, che le rivendicazioni salariali debbono essere contenute, che le aziende hanno diritto di licenziare la mano d’opera esuberante. Nell’intervista programmatica, il linguaggio è chiaro, grave, serio.
L’intervista promozionale è pubblicità. Serve al politico al potere per illustrare i meriti propri e del proprio ministero, per dar conto dei propri successi, per respingere le critiche. Spesso televisiva o pubblicata da giornali amici, è di tono ufficiale, non prevede repliche né domande polemiche; solvente è opera esclusiva dell’intervistato che s’è fatto da sé domande e risposte (Fanfani è un grande cultore di questo metodo autonomo), o almeno le ha preventivamente approvate e controllate. Al politico minore, magari giovane e senza potere, l’intervista promozionale serve per farsi conoscere, per richiamare l’attenzione su di sé. In cambio di questo vantaggio pubblicitario, fornisce al giornalista dichiarazioni eccessive, scandalistiche, frenetiche, rilasciate in un linguaggio rotto, arrogante e scomposto: «Zaccagnini non conta un cavolo e lo sanno tutti», «Il partito sta andando allo sfascio», «I vecchi si devono levare dalle scatole», «Non tollereremo altro dai comunisti». «Quel direttore è uno scemo e va cacciato». L’intervista promozionale può anche essere un atto o uno scambio di cortesia: alle sette e mezzo del mattino, oscuri deputati dicono la loro alla radio sui patti agrari; a tarda sera Malagodi spiega lungamente che gliene sembra dell’America agli insonnoliti spettatori dell’ultimo telegiornale.
Poi ci sarebbe l’intervista vera e propria, ossia l’occasione in cui un giornalista abile, disinteressato e non conformista interroga al momento giusto il personaggio del momento, ricavandone informazioni utili e dichiarazioni interessanti: è sempre più rara.