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 2024  dicembre 30 Lunedì calendario

Biografia di Jimmy Carter

Jimmy Carter (1924-2024). Politico. Trentanovesimo presidente degli Stati Uniti, dal 1977 al 1981. «È morto ieri, nella sua casa, nella sua cittadina natale, a Plains in Georgia. Si è spento in modo naturale, “serenamente, circondato dalla sua famiglia”, come si legge nel comunicato diffuso dalla sua fondazione, il Carter Center di Atlanta dopo l’annuncio del figlio Chip. Il primo ottobre scorso aveva compiuto 100 anni: era il più vecchio degli ex presidenti. A metà degli anni Settanta, sbucò praticamente dal nulla sulla scena politica nazionale e poi mondiale. Dopo aver frequentato la prestigiosa Accademia navale di Annapolis, nel Maryland, tornò a Plains per guidare l’azienda di famiglia, una farm di arachidi. Il 7 luglio 1946 sposò Rosalynn Smith, una ragazza del suo villaggio, più giovane di tre anni. I due erano vicini di casa, ma si accorsero uno dell’altra mentre andavano al cinema in gruppo, strizzati sul sedile posteriore di una vecchia Ford. Jimmy era già un ufficiale della marina militare. Chiese subito alla ragazza di sposarlo. Rosalynn rispose di no, ma il giovane militare riuscì a farle cambiare idea. Hanno avuto quattro figli e condiviso una vita infinita: Rosalynn è morta nel 2023 a 96 anni. Jimmy ha sempre interpretato la passione politica come servizio alla comunità, da devoto cristiano battista. Ecco una delle sue frasi più citate: “La mia fede mi impone, e non è un’opzione, che io faccia tutto ciò che sia in grado di fare, dovunque io mi trovi, in ogni circostanza”. Nel 1971 diventa governatore della Georgia, uno Stato con antiche pulsioni segregazioniste, non del tutto cancellate. Nel 1977, a 52 anni, giura da presidente. Nei saggi più interessanti degli ultimi anni, come These Truths, di Jill Lepore o The Soul of America di Jon Meacham, Carter occupa uno spazietto grigio tra lo spregiudicato Richard Nixon e lo scintillante Ronald Reagan. Eppure anche la sua stagione fu segnata da fatti e scelte cruciali, spesso condivise con Rosalynn, la sua irrinunciabile consigliera, la prima First lady della storia a partecipare alle riunioni formali del governo. Innanzitutto il rapporto difficile, rischioso con l’Unione Sovietica. Prima il negoziato e la firma del Trattato Salt, per la riduzione delle armi strategiche. Poi, nel 1979, la rottura di quella intesa, come risposta all’invasione dell’Afghanistan, ordinata da Leonid Brezhnev. La sua politica estera scorre nel segno del dialogo, nel tentativo di sollevare la reputazione morale del governo americano, screditato dal disastro del Vietnam e dalle manovre occulte della Cia, specie nell’America Latina, all’epoca della coppia Nixon- Henry Kissinger. Non è certo un caso se fu lui a restituire a Panama, nel 1977, la sovranità sul Canale che ora Donald Trump vorrebbe in qualche modo controllare. Ma il successo più limpido resta l’accordo di pace tra l’egiziano Anwar Sadat e il primo ministro israeliano Menachem Begin, siglato a Camp David, nella residenza estiva dei presidenti americani, il 17 settembre del 1978. La macchia indelebile, quella che segnò la fine della sua parabola, è rappresentata dalla crisi degli ostaggi. Il 4 novembre gli studenti rivoluzionari iraniani, seguaci dell’ayatollah Khomeini, catturarono 53 dipendenti dell’ambasciata americana a Teheran. Lo stallo durò più di un anno, ma Carter non riuscì a liberarli, neanche con un blitz delle forze speciali. In parallelo cercò di fronteggiare le turbolenze del mercato petrolifero. Ma le sue scelte si rivelarono inefficaci: allentò i controlli sui prezzi del greggio e della benzina, sperando di placare le spinte speculative. Invece si scatenò l’inflazione e la sua popolarità scese ai minimi. Nella campagna del 1980 fu travolto da Reagan e, per un lungo periodo, i democratici per primi si affrettarono ad archiviare la sua presidenza, cercando di distanziarsi da una figura associata alla debolezza, all’impotenza politica. Nel tempo, però, Carter ha avuto le sue rivincite. La più clamorosa: nel 2002 gli venne assegnato il Premio Nobel per la pace. Da ultimo aveva goduto di una curiosa visibilità di ritorno. Alla vigilia delle primarie del 2020 il New York Magazine scrisse che Jimmy stava diventando un modello da contrapporre all’estremismo di Trump» [Sarcina, Cds].
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