Corriere della Sera, 29 novembre 2024
Noi, stregati dall’Atalanta
«Come stif?», chiese Papa Giovanni al vecchio Gioàn col rispetto antico dovuto al più anziano dei compaesani che dopo l’elezione erano venuti in pullman da Sotto il Monte a trovarlo a San Pietro: come state? Al che «ol Gioàn», paonazzo per l’emozione verso il pontefice che aveva conosciuto quando Giuseppe Roncalli faceva il chierichetto, bofonchiò: «Sé al fös de di e di... eh eh alà alà amò amò... ma pòta oh...» Intraducibile. Il senso era: se sapessi dirlo, ma come faccio a spiegarlo?
È leggendario, quel dialogo. Solo loro, da bergamasco a bergamasco, potevano capirsi. Non meno indimenticabile, però, resta la cronaca della visita a Roma, al Santo Padre, durante il campionato 1959/60, dell’Atalanta allenata dal futuro Ct della nazionale Ferruccio Valcareggi. C’erano in squadra svedesi come Bengt Gustavsson o argentini come il grande Humberto Maschio, ma Roncalli si mostrò più a suo agio col portiere Zaccaria Cometti: «Dè ‘ndo sét?». E l’altro: «Dè Romà». Accento sulla à. Intendeva Romano di Lombardia, provincia di Bèrghem. La Patria.
Oggi no, non sono più tantissimi i giocatori nati e cresciuti in zona. E anche se la società dal 2011 accoglie tutti i neonati negli ospedali cittadini e del circondario, quali che siano il loro colore e il loro passaporto, con una maglietta nerazzurra e una lettera del presidente Antonio Percassi (ius soli a tappeto: «Benvenuto, sei nato a Bergamo, ti accogliamo presentandoci. Siamo l’Atalanta, uno dei simboli di questa città») la squadra ascesa ai livelli più alti del calcio europeo è ormai piena zeppa di stranieri delle più diverse nazionalità. Alcuni dei quali, come l’olandese Marten de Roon o il brasiliano Rafael Tolói, ormai adottati e orobici di fatto, ma tutti via via plasmati, a partire dal formidabile serbatoio di 418 tesserati (380 lombardi) delle squadre giovanili, come spiega Pietro Serina, che è un po’ «l’Erodoto della Dea», dalla «bergamaschità».
Ed è questo il punto di partenza e di arrivo di un libro in uscita oggi per Cairo editore che non parla solo di calcio. Si intitola Amare una Dea ed è stato curato da Fabio Finazzi, a lungo caporedattore della cronaca milanese del «Corriere», che ha coinvolto, chiedendo loro una testimonianza di dedizione, sei altri atalantini come lui. Dal regista Davide Ferrario al sondaggista Nando Pagnoncelli, dallo scienziato dell’Istituto Mario Negri Giuseppe Remuzzi all’editorialista e scrittore Gigi Riva, dalla giornalista di costume Donatella Tiraboschi allo stesso Pietro Serina. Chiamati tutti a spiegare come una «provinciale» per anni condannata ad andare avanti e indré tra la A e la B sia arrivata, con la scintillante vittoria a Dublino nell’Europa League (e non solo), ai vertici del calcio continentale. Partendo da una scelta controcorrente: tenersi stretto un allenatore come Gian Piero Gasperini che esordì otto anni fa a Bergamo con 4 sconfitte nelle prime 5 partite. Cosa che da altre parti, vedi Daniele De Rossi alla Roma, sarebbe stata seguita dal licenziamento in tronco.
Così va, a Bergamo. Da sempre. Basti dire che già prima dei Percassi, in 19 stagioni dal 1992 al 2010, il vivaio vinse dodici scudetti, tre Coppe Italia Primavera e un Torneo di Viareggio. Tirando su fior di campioncini capaci ogni anno di fare miracolosamente quadrare i conti. Sempre nella scia di uno spirito d’appartenenza più unico che raro. Che dovrebbe marcare l’identità del nuovo museo allo stadio e spinse Pagnoncelli, costretto a un vertice sul sinodo proprio la sera del memorabile 3-0 al Liverpool, a dire ridendo ai vescovi: «Per essere qui ho rinunciato alla mia vera fede». Un’identità fortissima, rivendicata anche nelle pagine più dolorose come la miseria dei Gioppini coi «tri goss» malati alla tiroide, l’emigrazione perfino nelle miniere indiane di Bangalore, l’abuso di polenta, troppa polenta, solo polenta finita oggi sulla T-shirt indossata orgogliosamente anche dalla fantastica Sofia Goggia la sera del trionfo a Dublino, con parole che fanno il verso all’inno del Liverpool: «You’ll Never Eat Polenta Alone». Non sarai mai solo, a mangiare polenta.
Come spiegare i trionfi di oggi se non con l’orgoglio per i sacrifici e il senso del dovere di ieri? «Mamma, divento portiere dell’Atalanta e poi ti sposo», diceva giudizioso, da scolaretto, il regista Ferrario quando non capitava spesso di vincere e «tifare Atalanta era un amore in perdita» e allo stadio gli altoparlanti tuonavano: «Sportivi attenzione, regolate gli orologi. Bulova Accutron». Niente grilli per la testa: lavorare all’Atalanta, nella scia del mitico Pizzaballa, era un mestiere modesto ma sicuro.
«Le qualità che hanno fatto grande l’Atalanta sono anche quelle dei bergamaschi: parlare poco e fare i fatti», spiega Remuzzi, che la sventurata sera del febbraio 2020 era a San Siro («un microbiologo, allora non ancora così noto, aveva appena detto in televisione che era più facile essere colpiti da un fulmine che prendere il Covid») a fare il tifo contro il Valencia: «Il mio professore di Storia ci raccontava un aneddoto sicuramente inventato ma a suo modo significativo. Nel 1492 Colombo sbarca in America e gli va incontro un tale che gli chiede: “Come vanno le cose in Valle Imagna?”. Come dire cosa sono i bergamaschi, che, in silenzio, possono arrivare dappertutto...» Come Giacomo Beltrami che fu il primo ad arrivare alle sorgenti del Mississippi e a comporre un dizionario della lingua Sioux.
Grandi passioni, grandi delusioni. Come quella per il tradimento di Cristiano Doni, l’eroe di tante stagioni coinvolto nel calcioscommesse. E grandi devozioni. Come quelle che Gigi Riva, che si attaccava a una radiolina per aver notizie della Dea anche sotto le bombe durante l’assedio a Sarajevo, ha riversato in una lettera sul «Corriere di Bergamo» a Ivan Ilicic, il campione più amato non solo per le sue delizie calcistiche ma anche per le insicurezze figlie della tragedia della sua famiglia sconvolta dall’odio che fece a pezzi la Jugoslavia: «Noi non possiamo far altro che inchinarci davanti al suo dolore esistenziale, ringraziarla per le gioie. Si prenda il suo tempo, ne ha tutto il diritto. Noi l’aspettiamo non con l’egoismo del tifoso che la vorrebbe presto con la maglia nerazzurra ma con l’affetto di chi vorrebbe che rispuntasse sulle sue labbra un sorriso. Sarebbe il segno che non sempre vincono i cattivi se non saranno riusciti a piegare una voglia di vita».
Giocare? Non giocare? Nessuno mise mai fretta a quel genio fragile. E forse poteva accadere solo lì, sotto l’ala di una Dea...