Corriere della Sera, 29 novembre 2024
Biografia di Luigi Carlon raccontata da lui stesso
Luigi Carlon, lei ha detto che ogni collezionista è un po’ malato: allora, vedendo la magnificenza del suo Palazzo Maffei a Verona, con oltre 650 opere, lei è un malato irrecuperabile...
«La passione a volte sfocia in una specie di malattia e per me un collezionista non smette mai. Ma essere collezionista significa anche informarsi sempre: ogni giorno dedico due ore allo studio. L’arte è stata una compagna della mia vita, parallela all’attività di industriale. Mi emoziona e mi fa pensare: compero un dipinto solo se mi genera una scossa».
Come ha scelto le opere della collezione?
«Con Gabriella Belli che ha curato il progetto ho unito mondi diversi ed epoche in apparenza distanti. L’investimento artistico rapisce: per me è un altro modo per “uccidere” il tempo».
Questa passione non rischia di oscurare il Carlon imprenditore?
«Ho venduto agli svizzeri del Gruppo Sika e l’azienda opera sempre con il nome Index che le avevo dato. Per rispondere alla domanda, dunque, dico che questa passione non cancella il passato. Non è stato semplice lasciare, però sono sempre stato attirato dalle nuove iniziative e non volevo cadere nella sindrome di Icaro».
Che cosa è la sindrome di Icaro?
«La spiegò la rivista Harvard Business Review in merito agli industriali di prima generazione come sono stato io. Questi imprenditori una volta arrivati al successo si beano di loro stessi e, come Icaro che voleva arrivare al Sole con le ali di cera, cadono nel mare. Dedicarmi all’arte mi ha consegnato a una nuova avventura e mi ha evitato un tonfo».
Ha perso il padre a 20 anni: all’improvviso, una vita in salita.
«Frequentavo Ca’ Foscari, ma non potevo più proseguire: mamma era casalinga, iniziai a lavorare a Verona. Un professore mi incentivò a non mollare gli studi, promettendo di sistemarmi in banca. In parallelo avevo aperto un’azienda con un socio: producevamo lana di roccia e isolanti termici. La banca mi mise i bastoni tra le ruote e mi trasferì a Vicenza. Così mi dimisi. Immaginate mia madre: era disperata, perdevo sedici mensilità di stipendio. Ma io non volevo lasciare quell’attività».
Fondata la Index, attuò le idee di un Premio Nobel quale Giulio Natta.
«Puntammo sulla ricerca. Natta aveva inventato il polipropilene, isotattico e atattico, quest’ultimo il Moplen pubblicizzato da Gino Bramieri. Un giorno alcuni ricercatori ebbero l’idea di mescolarlo a bitume distillato. Nacquero così prodotti impermeabilizzanti che resistevano da -40 a +140 gradi centigradi. Non ho conosciuto Natta, ma il frutto del suo genio mi ha permesso di avere distributori in 100 Paesi».
Gli Champs-Élysées, l’Empire State Building, l’Opera House di Sydney e altro ancora: di quali progetti ai quali ha collaborato va più fiero?
«Forse dell’Opera House, edificio innovativo e difficile da impermeabilizzare. Ma non scordo Place Vendôme, il garage del Ritz, le gallerie del Tgv, gli Champs-Élysées dove fu necessario togliere gli alberi e poi ripristinarli. In Francia c’erano le principali concorrenti, le abbiamo battute in casa. Siamo arrivati ad avere 2 mila prodotti, puntavamo sulle “4 P” di Philip Kotler che regolano il marketing: Product, Price, Place, Promotion. All’ingresso della scuola di applicazione dei materiali c’era una massima di Confucio: “Se ascolto, dimentico; se leggo, ricordo; se faccio, capisco”. E loro, gli studenti, dovevano fare...».
Una caratteristica del Carlon imprenditore?
«L’essere stato un innovatore nel rapporto con i dipendenti: alla Index non c’è mai stato uno sciopero».
Perché non ha fatto il pittore?
«Perché la mia consorte mi ha tarpato le ali! (risata). Eravamo appena sposati, una volta uscì a fare compere. Avevamo una cornice, ma senza dipinto: nel riquadro il muro era a vista. Presi i colori a olio e realizzai un Sole e una Luna che si contrastavano, come il Bene e il Male. Quando rientrò, mia moglie mi disse di tutto e di più. Bene, chi acquistò quell’appartamento ci chiese se potevamo lasciargli il dipinto...».
Dicevano i Futuristi: «Abbiate fiducia nel progresso: ha sempre ragione, anche quando ha torto». È vero?
«Sì, se parliamo di innovazioni mi pare una massima azzeccata: tra “pro” e “contro” il progresso ha sempre ragione».
Palazzo Maffei è una «wunderkammer», una camera delle meraviglie. Non le viene voglia di abitare in mezzo ai capolavori?
«Ma io al Palazzo penso sempre, di notte, di giorno. E aggiungo novità. Le ultime sono una sedia di Gaetano Pesce e un’opera di Manuel Gardina che sfrutta l’intelligenza artificiale. Abbiamo chiesto all’artista di scegliere dieci dipinti dalla collezione e di trattarli con l’AI, che legge le presenze dei visitatori e rielabora l’opera stessa. Quindi il quadro è in perenne aggiornamento».
Si è mai indebitato per un’opera d’arte?
«Altro che...».
C’è un modo per spiegare l’arte contemporanea a chi non la capisce?
«L’arte è sempre stata “contemporanea”: il più delle volte non era compresa dalla gente di una stessa epoca. Lanciarono letame agli Impressionisti e nel passato Caravaggio fu criticato. Pure l’arte attuale non è capita, se non dagli artisti. È per questo che mi batto affinché ogni opera abbia una didascalia esaustiva».
Ha mai temuto di acquistare qualche falso?
«Mi è capitato con alcune ceramiche. Comperai maioliche del Rinascimento da una persona seria, ma un intenditore mi mise in allarme. Aveva ragione: una parte che avrebbe dovuto essere consumata era nuova».
Da bambino giocava con giochi normali o pensava già ai quadri?
«Mio padre, friulano, era severo: per lui dovevo solo studiare. Una volta mi regalò un pallone di gomma; ma me lo tolse dopo due giorni. Anche lui appassionato d’arte? In casa, come quadro, avevamo il calendario della Cooperativa Alimentare...».
Ha inseguito per 45 anni «La grande onda di Kanagawa», di Katsuhiko Hokusai. Quel quadro era diventato un’ossessione?
«Sì. Ero andato in Giappone, avevo visto l’Onda. Lessi la storia di Hokusai e di chi dipingeva “en plein air” usando la tecnica ukiyo-e, letteralmente “immagini del mondo fluttuante”. Avevo cercato invano di comperarla a New York e a Londra, dopo anni l’ho ritrovata: ne esistono solo 50, tutte nei musei; in Italia siamo in tre ad averla, io sono l’unico privato. In origine ne erano state stampate 5 mila. Ma tra il 1840 e il 1850 in Europa si comperavano tazzine giapponesi che venivano incartate con le stampe dell’Onda: ecco spiegata la rarità. Però deve essere del 1831, le repliche non hanno valore. L’onda di Kanagawa ha raggiunto il miliardo di “like” su Google, Leonardo da Vinci si ferma a 150 milioni».
Ha pensato anche a una vita pubblica oltre il lavoro?
«Sono stato un self-made man, non avevo tempo per dedicarmi a cariche pubbliche. Ho rifiutato varie proposte e non ho rimpianti. Invece sono onorato di essere stato nominato Cavaliere del Lavoro da Giorgio Napolitano; un gran bel giorno».