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 2024  maggio 21 Martedì calendario

Intervista a Rosanna Marani, prima giornalista assunta in Gazzetta

Rosanna Marani, lei è stata la prima giornalista assunta in Gazzetta dello Sport nel 1973. L’anno dopo la mandarono al Giro, richiamandola presto a Milano. Ora un libro («Pezzi di colore» di Franco Bonera, edizioni Ultra sport) rivela che al giornale c’era una sorta di «Fronte Anti Marani», che pretese il suo rientro. Un colpo molto basso.
«Il ciclista Bitossi bussò alla porta della camera: “Sappiamo che ti cacciano, siamo pronti a scioperare”, Adriano De Zan, che mi aveva appena avvertito, gli disse che così mi troncavano la carriera».
Per Nereo Rocco, lei era una bestemmia nella chiesa dello sport.
«Quando mi presentavo a Milanello si copriva gli occhi e diceva che ero come il diavolo con l’acquasanta. Per lavorare in Gazzetta mi ero rifatta il guardaroba, con capi extralarge. Poi ho cominciato a fregarmene: mi sembrava di sottomettermi a un pregiudizio, nemmeno fossi una strega all’epoca dell’Inquisizione».
Se otteneva un’intervista si facevano insinuazioni?
«Sempre. Lodovico Maradei, uno dei pochi che mi ha protetto, mi diceva che l’osso lo portavo sempre a casa».
Dopo 14 anni di Gazzetta, passò alla tv. Pentita?
«Fu un errore perché potevo fare carriera in Gazzetta. Mi ero scorticata le mani per questa battaglia, potevo continuarla».
Per lei fu una missione?
«Avevo la presunzione e la vanità di fare la giornalista sportiva: perché non potevo? Ci ho messo studio, ricerca, patrimonio linguistico ed espressivo. E anche in tv qualche chicca l’ho tirata fuori, come l’intervista a gesti con Maradona in silenzio stampa. Quanto ci divertimmo».
Nelle sue decisioni pesava di più il clima post ’68 o la sua realtà famigliare?
«I due aspetti si sono fusi, mia madre era una grande appassionata di sport. Papà voleva un maschio, mi ha insegnato a guidare le auto a 10 anni e a 18 voleva farmi gareggiare in pista: mamma si mise di mezzo brandendo un coltello. Ho seguito i miei pregi e difetti caratteriali, riuscendo a rimanere me stessa».
Il primo che la lanciò nel giornalismo sportivo chi fu?
«Italo Cucci al Carlino, dove da Imola mi occupavo un po’ di tutto. Dopo qualche anno chiesi l’assunzione e il direttore mi consigliò: “Vada in America, che è il suo Paese”. Gli dissi io dove doveva andare lui...».
Una sfida dietro l’altra.
«Se mi dici no, io ci provo in tutti i modi. A costo di finire nel ridicolo».
Ci è mai finita?
«Quando ho esagerato con il maramiao con un presidente e per una foto su Novella 2000, truccata e vestita in un certo modo: non lo rifarei».
In Gazzetta in pratica entrò con una scommessa.
«“Se proprio ci tiene: mi porti un’intervista a Rivera” mi disse il direttore Mottana, pensando di liberarsi di me. Gianni era in silenzio da sei mesi. Ma ce l’ho fatta».
Nessun calciatore aveva mai parlato così di sé.
«Non è il calciatore che parla, ma l’uomo: sembrava non aspettasse altro. Siamo ancora amici, mi ha fatto anche da testimone di nozze. Ma quando sono riuscita ad entrare in clinica dove era appena nata sua figlia, fu incredulo: “Anche qui sei arrivata!"».
Mazzola giovane com’era?
«Perfetto, maturo, appagato della sua vita privata».
Gigi Riva?
«Di una bellezza assoluta, non soltanto esteriore, ma anche interiore: lo dicevano i suoi occhi».
Definì Chinaglia un cucciolone.
«Abbastanza superficiale, ma non nel senso cattivo».
Per lei i calciatori erano «ricchi e infelici».
«Ora mi sembrano peggio, sono nelle gabbie dorate, staccati dal mondo reale. Allora potevano uscire e con me parlavano volentieri: non inventavo nulla e non mettevo mai uno contro un altro».
Un pregiudizio sul posto di lavoro che la feriva?
«Essere considerata la segretaria da chi entrava in Gazzetta. Ma rispondevo a modo mio: “Non la scuso, si informi prima” dissi a Franco Carraro. Ci si dimentica delle conquiste, ma il bagno delle donne in tribuna a San Siro l’hanno introdotto grazie a me».
Come vede oggi le giornaliste sportive?
«Mi piace Paola Ferrari: ha ricordato che sono venuta prima, ma anche lei è stata una pioniera in Rai. In Gazzetta, Serena Gentile è bravissima, mi auguro diventi la prima direttrice. Chi utilizza il corpo invece non mi piace: il senso del ruolo è fondamentale».
Era mamma e lavoratrice?
«Sì, ho avuto un figlio dal primo marito, che era malato di depressione e si è suicidato lasciandomi vedova a 28 anni e altri due dal secondo. Guadagnavo molto bene, avevo la governante fissa e la tata. Mio marito era molto paziente: quando partivo per le trasferte lui faceva il mammo».
Con i grandi del mestiere come si relazionava?
«Gianni Brera tendeva a proteggermi, ha scritto la prefazione di un mio libro e mi invitava alle cene del giovedì per soli maschi in un ristorante romagnolo. Ma gli altri santoni erano dei tromboni».
La solidarietà dei colleghi si è mai manifestata?
«All’inizio no, poi sì: i carabinieri mi lasciarono fuori dagli spogliatoi, impedendomi di lavorare e i colleghi si ribellarono. Poi durante il Calcioscommesse del 1980 mi sono buttata sul cofano del presidente Colombo del Milan: si fermò per darci l’intervista e il giorno dopo gli altri giornalisti mi mandarono dei fiori».
Non aveva paura di niente.
«Mi vestii da dottoressa per intervistare il Mago Herrera in ospedale e su questo giornale Antonio Ghirelli mi fece i complimenti. Alla festa degli arbitri registrai il brindisi e chiesi a bruciapelo: “Chi è il più corrotto?”. Andarono tutti via, tranne D’Elia. Poi tornarono per lanciarmi in aria...».
Su Tmc travestiva allenatori e giocatori. E fece epoca.
«Maradona-Babbo Natale fece il giro del mondo. E Gullit fu il primo Babbo Natale nero. Ho messo il naso di Cyrano a Mondonico, l’elmo da vichingo a Trapattoni, facendogli spiegare la tattica coi soldatini dei miei figli: si prese anche una torta in faccia. Anche Cerezo-Mancini-Vialli vestiti da Re Magi furono spassosi».
Chi l’ha colpita di più?
«Ho adorato i tre della Samp e il loro allenatore Boskov, sempre serio ma con leggerezza. Poi Eriksson, a cui feci fare lo sketch del bastone e la carota con Baggio. E Rino Marchesi, il più gentile e umano: un vero gentiluomo».
Su di lei sono state scritte 26 tesi di laurea. Non male.
«Mi sento vanagloriosa, è un grande onore. Le ragazze che mi scrivono dicono che fanno fatica a imporsi: la faccenda non è ancora fluida».
Perché?
«Tutto è sempre legato al sesso e al sessismo: guardate gli odiatori sui social. Credo che una educazione sentimentale e sessuale a scuola, aiutata dalla famiglia, comporterebbe meno stupri, meno invettive sessiste e più consapevolezza della propria dignità e decenza. Se non insegni ai figli il rispetto dell’altro, vedi il degrado ovunque».
Ci sono stati calciatori o tecnici maleducati con lei?
«Non così tanti. Non mi portavo mai il lavoro a casa, ma qualcuno ci sperava: un calciatore della Nazionale mi offrì un passaggio in aeroporto, ma mi portò in un motel, chiuse la porta e disse “Adesso consumiamo!”. “Ti consumo io!”, gli risposi, dandogli un ceffone. Lui si sedette e mi chiese di restare in stanza un’ora, perché aveva già pagato per tutto il pomeriggio: temeva di fare brutta figura. Un altro campione, sempre in macchina, mi fece una avance molto volgare. Sono scesa».
Era candidata alla «Domenica Sportiva»: non ci andò.
«Tito Stagno scelse Novella Calligaris, la nuotatrice. Poi tornarono le vallette. Non volevano una giornalista».
Le lotte non sono finite.
«L’immunoterapia mi ha bloccato un tumore al polmone al secondo stadio, però purtroppo devo fare la Tac di nuovo. Con il cortisone sono ingrassata un po’: fissarsi su una cosa così stupida è la mia ancora di salvezza, perché non penso al resto. Patisco moltissimo la solitudine del malato: sono nella categoria dei morituri, ma mi dicono che il mio cuore è stupefacente e mi ha aiutato in 14 interventi chirurgici».
La poesia la fa sentire meno sola?
«Ho vinto il premio Alda Merini, se faccio le cose mi riescono ancora bene».