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 2024  aprile 18 Giovedì calendario

A cento anni dalla pubblicazione «La montagna incantata»

Cent’anni, per un libro e in particolare per un romanzo, sono molti; una sfida donchisciottesca all’oblio cui prima o dopo sembra destinata la vita, anche se ogni libro, ogni gesto e ogni parola sono un consapevole o inconsapevole rifiuto di dimenticare, verbo che talora sembra un sinonimo di morire. Il capolavoro di Thomas Mann di cui ricorre il centenario – La montagna magica, come dice la magistrale traduzione di Renata Colorni, che ha preso il sopravvento su quelle precedenti, La montagna incantata, di Bice Giachetti Sorteni e poi di Ervino Pocar, titolo la cui suggestione echeggia nella nostra mente – finisce con una domanda, quasi una richiesta d’aiuto che non si sa a chi rivolgere, anche perché a rivolgerla al Tempo e alla Storia è l’autore che trascolora nel lettore.
Dopo i sette anni trascorsi nel sanatorio di Davos, il protagonista del romanzo, Hans Castorp, si scuote dal sonno morale che aveva assorbito la sua esistenza e la sua esperienza intellettuale e ritorna alla vita, anche se essa, in quel momento, è la tragedia della Prima guerra mondiale con le sue ecatombi. La decisione di arruolarsi di Castorp è una paradossale scelta di solidarietà con l’umanità sfigurata dalla guerra ed egli, nelle ultime righe del libro, si chiede se «forse anche da questa sagra mondiale della morte, da questa voluttà smaniosa e maligna che incendia tutt’intorno il piovoso cielo della sera, potrà un giorno innalzarsi l’amore?».
Una domanda o una speranza umanistica contro l’amore della morte divenuto una cultura, un modo di essere e di sentire che si estende a macchia d’olio. Il romanzo di Mann – insieme ai Buddenbrook e a Morte a Venezia, capolavori della sua vita – è un viaggio nella prolissità della morte come lo sono molti suoi libri, anche se addentrarsi nella morte e nella sua seduzione è forse l’unica arte di aggirarla e di sottrarsi, nonostante tutto, alla sua presa totale.
Sottintesi
Un romanzo eccezionale dove l’eros, mai esplicito, diviene la musica più profonda della vita
Le affascinanti e puntigliose introduzioni di Michael Nemann, Luca Crescenzi, Fabrizio Cambi e Renata Colorni sono una variegata e inesorabile lettura della Montagna magica, che aiutano ad entrare nell’incanto, inscindibile unità di desiderio di morte e resistenza a questo desiderio. I cent’anni trascorsi dalla pubblicazione non sembrano avallare l’auspicio e il desiderio delle parole finali pervase dalla speranza che un giorno da quella sagra sanguinosa di distruzione possa nascere l’amore. Ma Thomas Mann non è il poeta di alcun Principio Speranza. In questi cento anni non sono nati l’amore e la pace, bensì altre tragedie, altre stazioni del trionfo della morte che scandiscono i giorni che gli uomini sono chiamati a vivere.
Durante gli anni vissuti nel sanatorio Hans Castorp è un riluttante allievo di due maestri che si contendono la sua anima, l’illuminista Settembrini che vuole difendere la vita – per Mann, la cultura europea – dall’irrazionalismo che la corrode da ogni parte, in un’ambigua mescolanza di presunzione tecnologica e astrazione, e il misticheggiante Naphta, che cerca la luce nell’oscurità del pensiero e del sentimento. Hans Castorp è insieme lo scolaro conteso dai maestri e il mediatore fra i due modi di intendere la vita e il pensiero. È curioso che, com’è stato detto, Mann – genio nel citare e trasformare la realtà e la vita – abbia pensato anche a Lukács nell’ideare il personaggio di Naphta, rivoluzionario e oscurantista, che si suicida durante l’assurdo duello con Settembrini in cui sfociano le loro discussioni. L’ambiguità geniale di Lukács non si addice a quella ora esplicitamente professata ora elusivamente sfumata di Mann, non a caso autore delle Considerazioni di un impolitico, altro capolavoro sfuggente.
Il sanatorio in cui si svolgono l’iniziazione di una vita diversa di Hans Castorp e la difesa della propria visione del mondo da parte di Naphta è un’arca di Noè in cui c’è posto per ogni idea e ogni presa di posizione e per le loro confutazioni. Non c’è tema, anche solo accennato, che non sia fondamentale. In questo romanzo da Nave dei folli che è La montagna magica, l’eros, mai esplicito, diviene la musica profonda della vita, impressa negli occhi lievemente a mandorla di un’affascinante paziente del Sanatorio, Madame Chauchat – «fessure tartare», le definisce con durezza Naphta, che fanno riemergere nella mente e nel cuore di Castorp il ricordo, la presenza di quegli occhi nel volto di un antico compagno di scuola e il turbamento che gli avevano dato. Nonostante la vastità e la complessità dei temi di cui è così ricca l’opera manniana, la sua grandezza risiede soprattutto nella lievità di cui la sua arte è capace e che, come nel capitolo «Neve», fluisce come lo scorrere della vita stessa.