Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  marzo 28 Giovedì calendario

Intervista a aLyonel Trouillot


Nato a Port-au Prince nel 1956, professore di letteratura francese e creola, poeta e romanziere, oggi Lyonel Trouillot è considerato uno dei più importanti scrittori haitiani.
Nel suo ultimo romanzo Veilleuse du Calvaire rende omaggio a quelle donne – portatrici di vita, di speranza e di gioia – che lottano contro la precarietà, la paura, il decadimento, realtà di tutti i giorni di gran parte della popolazione.
Come è stata la sua infanzia a Haiti?
«Una cultura del sussurro, il coprifuoco, persone scomparse di cui era proibito chiedere informazioni, sfilate e parate di militari e dimacoute (i miliziani della dittatura, ndr ),la voce nasale del “buon dottor Duvalier” alla radio. Ma anche la letteratura e la Storia che entravano in casa grazie a mio zio e mio padre (storici e professori). Il libero accesso alla biblioteca di famiglia. Frammenti di cultura popolare: le storie raccontate dal personale domestico, i ritmi popolari trasmessi da alcune stazioni… Una società nella quale si percepivano in ogni caso forme di esclusione, semi segregazione, una gerarchia sociale impietosa. Non mi piace molto parlare della mia adolescenza.
Senza dubbio, ero sciocco e individualista come sappiamo che si è a quell’età. Il mio ingresso nell’età adulta: la dittatura (durata trent’anni) fingeva di essersi assopita. Giovani e meno giovani cercavano di smuovere le cose.
Creazione di sindacati, di associazioni culturali, moltiplicarsi dei luoghi di ritrovo, nascita di una stampa indipendente nonostante la repressione. La passione intellettuale in molti giovani. Una speranza trasformata in festa con la caduta della dittatura.
Disgraziatamente, la festa non è durata a lungo».
Come è la vita oggi a Haiti?
«Invece di far progredire il Paese, le élite economiche si dedicano ai loro affari – import-export, subappalti, speculazioni. Mostrano indifferenza, quasi disprezzo per qualsiasi obiettivo collettivo, come ricostruire lo Stato o creare una società di cittadini interessati al bene pubblico. A fronte di ciò, il resto della società necessita di servizi di base, migliori condizioni economiche, meno pregiudizi e meno esclusione sociale. Sotto la pressione costante delle potenze occidentali e delle istituzioni internazionali, esiste una democrazia formale di pura facciata. A eccezione dell’elezione di Jean-Bertrand Aristide nel 1990, che nessuno contesta, le elezioni spesso sono state truccate; quindi, non riconosciute valide dalla popolazione haitiana, pur essendo state finanziate e approvate dalla comunità internazionale. La vita istituzionale si va degradando. La corruzione è divenuta un modello di gestione. Banditismo generalizzato, aumento della povertà, nessuna etica trasversale alla società, impoverimento delle classi medie e dei contadini, esododei quadri… Tutto si è deteriorato.
La precarietà, la paura, il degrado sono la realtà di tutti i giorni di gran parte della popolazione».
Ci può spiegare perché la Repubblica Dominicana ha più successo di Haiti?
«Su questo esistono studi universitari molto illuminanti. Ecco alcuni elementi di cui si deve tenere conto: mentre Haiti, a partire dal XVII secolo, è stata una colonia di sfruttamento nella quale la popolazione si è riprodotta grazie all’importazione di nuovi schiavi, Santo Domingo è stata una colonia di insediamento. A Haiti si è frantumata la solidarietà tra i singoli individui e i gruppi. Poi, negli anni successivi alla sua indipendenza nel 1804, Haiti è stata ostracizzata dalle grandi potenze, isolata, e questo ha impoverito considerevolmente il Paese, che di per sé era prospero nelXVIII secolo. Per razzismo, gli Stati Uniti hanno investito molto di più nella Repubblica Dominicana che a Haiti durante la loro occupazione (1915-1934). Lì le élite o oligarchie dominicane sono riuscite a creare una parvenza di sfera comune di cittadinanza, come anche una comunità fittizia fondata in parte sull’anti-haitianismo. Le élite hanno mascherato la miseria e le disuguaglianze. Haiti, in ogni caso, al di là di tutte le sue sventure possiede qualcosa di unico nella sua fondazione, per essere stata la prima nazione sottomessa a schiavitù che si è emancipata nel 1804».
Ci racconti la vita politica del suo Paese.
«Il potere è illegittimo. La società civile e alcuni gruppi politici propongono di creare un governo di transizione degno di questo nomein vista di elezioni democratiche. Il corteo di auto del Primo ministro talvolta è composto da diciotto vetture, mentre la povertà dilaga ovunque. Lo spettacolo che ne emerge è di sperpero e incompetenza».
Che cosa resta della vita culturale?
«È difficile per i gruppi e i centri culturali: l’insicurezza, i problemi economici, le difficoltà ci sono.
Eppure, si resiste, e si organizzano numerosi eventi. Per esempio, a Port-au-Prince dirigo l’Atelier di scrittura Giovedì Sera che continua a riunirsi e a produrre. Soltanto poche settimane fa, alcuni giovani hanno creato l’Atelier Tambours du Soleil, in riferimento a uno dei titoli del grande poeta haitiano René Philoctète. La vita culturale è un bisogno, è espressione, modo per dire a uno stesso tempo il peggio e la volontà di uscirne».
Che cosa si aspetta dalla Francia e dagli Stati Uniti?
«Credo che la popolazione abbia perso fiducia negli occidentali. La popolazione ha la sensazione di non essere compresa, di non essere ascoltata. Gli haitiani non nutrono un’ostilità di fondo verso uno o l’altro Paese. Sperano che le voci della società haitiana siano ascoltate, e che sia rispettato quello che la società haitiana deciderà di fare di sé. Spesso sono stupito dal constatare quanto poco i francesi conoscono di Haiti, ne hanno una visione caricaturale. Dal canto mio, spero in un dialogo, in maggiore amicizia, in scambi tra popoli. E che gli Stati sostengano gli sforzi degli haitiani verso una vera democrazia».