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 2024  marzo 28 Giovedì calendario

Estratto da Ciau Masino di Cesare PaveseMasino – altrimenti, Tommaso Ferrero – aveva un posto in un giornale di Torino, che lo soddisfaceva pienamente

Estratto da Ciau Masino di Cesare Pavese
Masino – altrimenti, Tommaso Ferrero – aveva un posto in un giornale di Torino, che lo soddisfaceva pienamente. Bisogna però dire che non è difficile essere soddisfatti del posto nel giornale quando si ha l’età di Masino – ventiquattro, venticinque – e l’esagerata adattabilità ai fatti esterni, che aveva lui. Non parlo ora di quelli intimi, che è tutta un’altra cosa. Comunque, si aggiunga che il lavoro di redazione – allegra tortura del giovanotto – gli lasciava quasi sempre tutta la mattinata per andare in giro o stare in casa, lavorare o far nulla, essenzialmente per godersi il risveglio e lo spettacolo della vita che riattacca, e si concederà che Masino era uno di quei giovanotti scapati che, forse non accorgendosene nemmeno, sanno crearsi stati magnifici pieni di avventura e di interesse e – questo è il bello – senza nessun bisogno, per farlo, di uscire dalla gran struttura macchinale della vita d’oggi. Al loro posto gente più anziana troverebbe solo da bestemmiare e da guastarsi l’anima rimpiangendo i tempi passati. Noi invece, ci adattiamo come un pendolino e stiamo allegri, che è poi l’essenziale.Masino, dunque, si svegliò una mattina tutto pieno di energie e ascoltò con profonda compiacenza il frastuono di automobili e di tram che, per la finestra aperta allora, gli saliva attraverso la nebbia pungente della strada, fin nella camera tutta in aria. Dopo un breve scambio di vedute con quei di casa che lo vennero a assediare per quel diritto ormai acquisito di ripulirgli la stanza e fargli il letto tutte le mattine, Masino capitolò da uomo che era, abbinando la ritirata coll’altra grande voluttà cosmica d’inondarsi d’acqua e tastarsi i muscoli. I soliti brani di velleità mattutine cominciarono intanto a passargli per il capo. Ma qualcosa di diverso c’era quel giorno. Magari qualcosa di più definito. Masino fischiettava ogni tanto, segno che a spilluzzico meditava.
E questo qualcosa gli fu chiaro in testa quando, con un passo da appuntamento fallito, fece le volte davanti all’uscio della camera, vociando a tutta la casa di dargli l’accesso e lasciarlo tranquillo.
Ed eccolo finalmente seduto a un tavolino nel freddo frizzante, chiusa allora la finestra. Il rumore dei tram giunse più soffocato. Sul tavolo c’era qualche libro e un fascio di bozze: Spettacoli e Didascalie.
Masino fumava e pensava. L’idea, ormai afferrata interamente, era semplice e grande: fare una canzonetta. Né per pubblicarla né per leggerla in giro. Fare una canzonetta. Una specie di bisogno fisico.
Naturalmente, per bravo ragazzo che fosse, Masino non era tanto scemo o inesperto da alzarsi un mattino e mettersi a fare il poeta così di testa, come ci si mette a scrivere una lettera di ringraziamenti. Qualcosa aveva già in mente Masino, una specie di avventura e di filosofia allegra, ma spiegarli questi precedenti non è semplice e del resto sarebbe inutile. Basti che, qualunque fossero stati quei precedenti, da qualche tempo e specialmente in quella mattina Masino era convinto di non essere fatto per vivere insieme a una donna. E non si parla ora di moglie o di figli: neanche di un’innamorata da passeggiare alla sera chiacchierando e sbaciucchiando per ingannare il tempo, Masino sapeva che farsi. E forse il motivo che si seccava era proprio questo, che s’immaginava la bella come una cosa da ingannare il tempo, mentre la sola donna che conta è quella che ci lega mani e piedi, ma allora c’è altro inconveniente della schiavitù e insomma Masino non ne voleva sapere. Avesse o no torto in queste sue idee, Masino in una cosa era bene fondato: non aveva mai fatto il deluso o lo scettico e tutto il resto, come tanto usava dopo la guerra. Aveva anzi al proposito tutta una teoria Masino, che lui era un piemontese, che i piemontesi non si sono ancora rivelati abbastanza e che colle donne i piemontesi debbono essere teste quadre e smaliziate. Citava volentieri che, quando in una famiglia della provincia piemontese il figlio porta in casa una nuora, prima cosa che pensano suoceri e figlio è di mandar via, per riduzione di personale, la servente che possono avere. Così stando le cose, Masino non aveva mai scritto una canzonetta da dopoguerra, perché era invece intento a un’impresa migliore: conoscere bene ed amare, bevendoci sopra ogni tanto, la sua razza.
E a vederlo, la mattina di cui si parla, seduto nella sua stanza fumando, canticchiando e fischiando da farsi ronzare le orecchie, non pareva un deluso dell’amore e tanto meno della vita. Eppure sul foglio aveva scritto: «Il Blues delle Cicche». Blues vuol dire malinconie e Masino lo sapeva. Com’era dunque?
Qui c’è un’altra teoria che s’allaccia alla prima sul Piemonte, e talmente s’allaccia che è difficile vederci un po’ chiaro. Nemmeno Masino del resto sapeva bene che cosa intendesse ed è meglio perciò rimandare la cosa a un momento che lui stesso la spieghi.
L’ultima sigaretta, che Masino fumò in casa quella mattina, fu guardando fuori della finestra, dove la nebbia d’ottobre aveva ormai lasciato un bel cielo dolce e pulito e quasi tiepido. Davanti, sul tavolo, gli stava il ritornello del blues finito. Si comincia sempre dal ritornello. Masino se lo godeva fantasticandoci su. Niente di più bello che star a fumare davanti un lavoro proprio appena questo è finito. Ogni tanto gli dava un’occhiata. Ecco qui il ritornello:
Butta la cicca, ce n’è ancora tante,
cosa ti fermi a guardare all’in sù?
e se ti pianta la bimba o l’amante
ce ne son cento che valgon di più.
Tutte le cicche si lascian fumare,
tutte le donne han la stessa virtù:
è molto peggio dover lasciar stare
quando le cicche non tirano più!
Masino non stava più nella pelle e aveva bisogno di muoversi, di uscire, di vivere, se esprimo quel che voglio dire, la sua canzonetta. Gli venne finalmente un pensiero. Il caffè del varietà era tranquillo a quell’ora e ci si sarebbe potuto lavorare. Cambiar posto era necessario. E si rivestì in furia, con una lontana idea che in quel caffè ci bazzicavano i cantanti e i musicatori. —